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Challengers

Regia di Luca Guadagnino vedi scheda film

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La recensione su Challengers

di Antisistema
6 stelle

Le geometrie dei corpi, sono la nuova cifra stilistica di un Luca Guadagnino, capace con "Challengers" (2024), di trovarsi a proprio agio con i meccanismi di ceto cinema americano.
Glamour all’ennesima potenza, fisici sudati ma sempre limpidi ed un uso ultra-pop delle musiche elettroniche del duo Reznor-Ross, capaci di conciliare sonorità cafone, con le derive volutamente kitsch e scene cult tipiche del cineasta, capace di far propria la scrittura sensazionalistica di Kuritzkes.
Attraverso una narrazione destrutturata, in avanti ed indietro nell’arco di 13 anni, Guadagnino costruisce un perfetto triangolo equilatero, dove i tre protagonisti Tashi (Zendaya), Art Donaldson (Mike Fast) e Patrick Zweig (Josh O’Connor), risultano congruenti in termini non solo di presenza sullo schermo, ma anche di fisicità ostentatamente esibita.
Rievocando ben altri triangoli amorosi Tashi diviene la sirena che ammalia Art e Patrick, compromettendone la geometria amicale paritaria, facendone esplodere tensioni ed invidie latenti. La macchina da presa del regista italiano, si esalta nei micro-movimenti all’interno delle quattro mura di una stanza, in cui i corpi dei personaggi, vengono esibiti nella loro forme longilinee (Zendaya), oppure negli addominali dei fisici asciutti e senza un filo di grasso (Fast e O’Connor).
Guadagnino trasporta lo spettatore in una partita di tennis, in cui i continui scambi di diritto e rovescio, conferiscono alla pallina traiettorie sempre diverse. I colpi di racchetta fisici, fanno emergere quindi un dialogo tra i giocatori, che diviene vera e propria relazione, in cui si dà fondo a tutte le proprie energie, attraverso gocce copiose di un sudore grondante.
Tashi non vuole essere una spacca-famiglie, ma è proprio lei a trasformare la perfetta retta amicale Art-Patrick, in un triangolo senz’altro equilatero, ma sempre con lei al vertice e quindi, il vero “dominus” sentimentale.
Non è un caso, che nei continui scambi di colpi seguiti dal pubblico con movimenti di capo destra-sinsitra, Tashi sieda proprio nel mezzo muovendo il capo ad una velocità diversa rispetto agli spettatori presenti. In questo estremo dinamismo di colpi, dove il tennis sembra tutto, ma in realtà è niente, perché il vero scambio và oltre il gioco stesso, Guadagnino metaforizza il tutto attraverso una regia il più possibile energica, ma il cui vitalismo non esplode mai per taluni limiti intrinseci, che fanno si che questo triangolo non esplichi mai il proprio essere. Una potenza in eterno, destinata mai a diventare atto come direbbe Aristotele. Una materia senza una precisa forma.

 

Mike Faist, Zendaya, Josh O'Connor

Challengers (2024): Mike Faist, Zendaya, Josh O'Connor


Tra i continui scambi di colpi, Guadagnino si piega al sensazionalismo di una sceneggiatura iper-glamour di questo ritratto alto-borghese, attraverso continui virtuosismi temporali, tra un passato ed un presente, in cui le relazioni non hanno mai consistenza.
Tashi-Art è un binomio senza forza, nonostante siano sposati da 10 anni ed abbiano una figlia, questo perché Hollywood ha sempre l’intrinseco problema di non saper (quasi) mai scrivere nulla su una coppia sposata. Nonostante l’esibizione anche spinta dei baci e delle effusioni - per altro buttati lì e non sviluppati, vedasi Art-Patrick nella stanza guardati con fare compiacente da Tashi -, il tutto resta ad un livello basico, senza mai penetrare nel profondo nelle autentiche passioni di tali personaggi, perennemente immersi in situazioni metaforiche - vedasi il vento -, senza mai vivere i conflitti e le emozioni trasposte sullo schermo.
La durata spropositata del lungometraggio (ben 131 minuti), compensa forse l’ego di una Zendaya, che per i critici boccaloni pare abbia offerto una grande prova, ma in realtà, simbolo dell’estremo egocentrismo di una influencer da Instragram/Disney Channel, credutasi già diva - con fastidiosa arroganza tra l’altro -, senza aver mostrato nulla e soprattutto senza conoscenza dei propri (gravi) limiti. Passino le scene del passato, nelle quali la regia di Guadagnino ne sfrutta solo il corpo, senza andare troppo sulla perfomance attoriale, ma quando il livello si alza nelle scene di dolore e soprattutto nel presente, ciò richiederebbe una profondità emotivo-espressiva congruente al proprio personaggio, ed invece tutto crolla. Zendaya quindi diviene l’emblema in negativo di tutto quello che non và nella recitazione americana odierna; iper-caricata, sciattamente monolitica e dalle gestualità tendenti ad un esasperato glamour (vedasi ad esempio quando si gira e si allontana da un Patrick rivisto 10 anni dopo).
Fortuna per il film, che oltre alla regia di Guadagnino - capace di dare ogni tanto un po’ di vitalità in tanto finto sensazionalismo di un cinema fluido, come impone il sentire odierno -, vi siano le buone prove di Josh O’Connor e Mike Fast, in grado di conferire un po’ di spessore psicologico ai loro personaggi, altrimenti affogati in un glamour pubblicitario, alla continua ricerca del cool e dell’effetto “oh” nello spettatore facilone.

 

Mike Faist, Zendaya

Challengers (2024): Mike Faist, Zendaya

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