Regia di Luca Guadagnino vedi scheda film
Il tennis è uno sport che richiede un enorme sforzo, sia fisico sia psicologico, nel quale il talento naturale deve essere accompagnato, oltre che dalla buona sorte, da una preparazione esemplare e da una disciplina ferrea, entrambe indispensabili per affrontare una stagione che dura undici mesi, cambiando continuamente le condizioni di gioco. Contestualmente, ogni singola partita – anche la più scontata - viene curata nei minimi dettagli, ricorrendo a statistiche che definiscono la migliore tattica di gioco da adottare in qualsiasi circostanza. Come in un face to face, degno di un film western, sul campo due giocatori si fronteggiano contando esclusivamente sulle proprie risorse, chi vince avanza al turno successivo, chi perde viene estromesso dai giochi, fino a quando tra i 32/64/128 contendenti, a seconda della categoria del torneo, solo il più bravo di tutti solleva il trofeo e scrive il suo nome in una bacheca che rimarrà per sempre.
Per ultimo, un ruolo determinante per arrivare al tanto agognato successo è strettamente correlato alle motivazioni, che intaccano/sollecitano la forza di volontà fino a stravolgere i pronostici, talvolta cambiando il corso del destino. A volte, anche una singola partita, in apparenza inutile, può rappresentare una svolta, dentro e fuori dal rettangolo di gioco.
Con Challengers, Luca Guadagnino (Chiamami col tuo nome, Suspiria) vola negli Stati Uniti e utilizza il tennis, nello specifico un singolo match, per raccontare - con uno stile pronunciato, articolato e sempre fedele a se stesso - principalmente tutt’altro, ossia una vicenda di amore e amicizia, di controllo e indipendenza, quanto mai instabile, penetrante e affamata, con tre caratteri che si compenetrano, completano e interscambiano, rivelati con una istintività incontenibile, che abbatte i desueti freni inibitori e quei dogmi che si fermano alla facciata facendo finta che dietro non vi sia nulla.
Quando erano poco più che adolescenti, Art Donaldson (Mike Faist – West Side Story, Panic) e Patrick Zweig (Josh O’Connor – The Crown, La chimera), due promettenti tennisti, conoscono Tashi Duncan (Zendaya – Euphoria, Dune: Parte due), la più luminosa promessa del tennis americano, innamorandosene perdutamente, con Patrick che inizialmente sembra avere la meglio.
Molti anni dopo, quando le loro carriere sono al crepuscolo, Art e Patrick si sono completamente persi di vista e si sfidano nella finale di un torneo minore, un challenger che per il primo, nel frattempo sposatosi con Tashi, che - dopo essersi precocemente ritirata a causa di un gravissimo infortunio - lo allena e sprona a dare sempre il massimo, è una tappa necessaria per tornare in forma e competere ai massimi livelli, mentre per il secondo è semplicemente un modo come un altro per sbarcare il lunario.
Il match si rivelerà più combattuto del previsto.
Togliamoci subito il dente. Challengers non è un film nemmeno minimamente pensato per saziare/conquistare gli appassionati del tennis, esploso da noi in seguito agli exploit di Jannik Sinner, basti pensare che il gioco è strapazzato da vorticosi movimenti di macchina e soprattutto che il rigoroso silenzio che lo caratterizza è sepolto da uno sferzante dj-set, che peraltro diventa una connotazione aggiuntiva di formidabile efficacia.
Attraverso una costruzione che soggiorna sulla resa dei conti per ricostruire tutti i crocevia del passato, nella quale l’andamento del match segue sapientemente le svolte e gli umori pregressi, Luca Guadagnino imbastisce una triangolazione insistita, tra ciò che è stato e quanto sta maturando, il campo da gioco e gli scomparti privati, le vittorie e quelle sconfitte che scombinano gli assetti. Un quadrante fiammeggiante che, tra una gioventù che guarda al futuro e successivamente adulti insoddisfatti, non realizzati o comunque sia in discussione, veleggia seguendo la logica delle targhe alterne, ponendo la sua lente d’ingrandimento su un banchetto marchiato a fuoco da rapporti di forza in continua evoluzione.
Quindi, con un modo di fare arrembante, che non si accontenta di inseguire le solite formule accondiscendenti e deferenti, alimenta un ritmo fuori dal comune, che staziona in una galassia tutta sua, intensa e spugnosa, facendo vivere/vibrare tre anime incasinate e altrettanti corpi desideranti, tra chi è dominante, mostrando una rapacità che non conosce alcun pudore e che mira sempre (più) in alto (per conquistare la posta in palio si può fare di tutto), chi vive con negligente leggerezza e chi invece vorrebbe tirare il fiato e che rimane a rimorchio, vincente in pubblico ma succube nel privato.
Con un battito cardiaco suscettibile e competitivo, in costante e snodata trasformazione/rimodulazione, tra manipolazioni e scalmane, avance stuzzicanti e allusioni ostinatamente concimate, cattiverie scodellate a carte scoperte e tranci di ironia, Challengers sposta instancabilmente gli equilibri, con un andamento a fisarmonica reso possibile e trepidante da una complicità plurima e sconfinata.
Se la fotografia del thailandese Sayombhu Mukdeeprom (Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, Tredici vite) e il comparto sonoro predisposto da Trent Reznor e Atticus Ross (The social network, Soul) viaggiano all’unisono, regalando momenti unici, delle perle cinematografiche, i tre protagonisti si mettono a nudo, esibendo una disinvoltura e un’intesa che raramente circolano sugli schermi. Dopo tanti ruoli di appoggio, Zendaya si appresta a conquistare la ribalta con una figura femminile ingombrante e determinata oltre ogni limite perbenista (sia mai che una donna domini e che per giunta lo faccia forzando la mano in maniera tanto clamorosa quanto scorretta), Mike Faist conferma quanto di buono aveva già fatto intravedere, mentre Josh O’Connor dimostra di possedere una caratura superiore, un talento destinato a condurlo nel gotha degli attori del prossimo futuro.
In sintesi, Challengers ha uno sguardo specifico, misto ed emancipato che, a torto o a ragione (è tutto fuorché un film che vuole accontentare tutto e tutti, quindi creerà spaccature più che comprensibili), suggerisce e deforma, aggrega e incrocia, assimila ed esterna, va a rotazione su di giri decretando una linea di condotta che colpisce la pallina a tutto braccio, accettando di commettere errori non forzati (vedi un’impalcatura a spezzatino che continua ad accelerare e a frenare, a dare su un piatto d’argento e a togliere da sotto il naso, ad avvicinarsi e ad allontanarsi), con pulsioni incontrollabili/incrollabili che fanno traboccare il vaso perseguendo/inseguendo le leggi del desiderio, quelle che quando esplodono travolgono ogni tipo di pensiero razionale.
Tra vincenti nati e chi s’incarta alla prima difficoltà, agonisti che alzano sempre l’asticella al massimo e chi invece vorrebbe un time out, talenti sprecati e carriere stroncate, sorrisi spensierati e frecciate affilate, colpi vincenti e fiducia smarrita, rimpianti incancellabili e spirito di rivalsa, affermazioni e capricci, con una chiusa letteralmente meravigliosa (una decina di minuti durante i quali ogni movenza assume un significato compiuto) che fa sentire – per una volta e chissà per quanto – tutti più vivi.
Smagliante e pervicace, palpitante e funambolico.
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