Regia di George Clooney vedi scheda film
Generalmente, tendiamo a sottostimare tutto quanto rientra nella sfera dello scontato, negando la possibilità che potrebbe non esserlo, almeno per una volta, per via di un’isolata ispirazione capace di rimodulare l’ovvio, donandogli un’essenza identificativa e quindi specifica. Questione di consuetudini, di iniziative che si ripetono con incallita costanza, anestetizzandoci al punto di produrre una barriera di scetticismo, una forma di autodifesa che rende improbo ogni presunto tentativo di assimilazione.
Nel suo piccolo, nel suo voler essere – a tutti i costi - tale, un film qual è The Tender bar, che ha un’interfaccia ampiamente condivisa, pone in evidenza un pacchetto di peculiarità caratterizzanti in grado di apparecchiare una tavolata imbandita di portate allietanti.
JR (Daniel Ranieri – Esordiente; Tye Sheridan – Ready player one, Il collezionista di carte) cresce senza il padre, ma attorniato dalle premurose attenzioni della madre (Lily Rabe – Fractured, The wizard of lies), dall’affetto stravagante del nonno (Christopher Lloyd – Ritorno al futuro) e dai consigli di suo zio Charlie (Ben Affleck – Argo, Gone girl – L’amore bugiardo).
Grazie al loro supporto, alla spinta che gli garantiscono giorno dopo giorno, e al suo naturale talento, JR riuscirà ad andare a Yale, dove conoscerà il suo primo e grande amore (Briana Middleton, alla sua prima interpretazione importante), e successivamente iniziare la gavetta da giornalista in una redazione importante.
A questo punto, farà i conti con il passato e valuterà il presente, avendo a disposizione un ventaglio sufficiente di indicazioni per decidere cosa fare, che strada imboccare - in maniera indipendente - per conquistare il suo posto nel mondo.
Prodotto dagli Amazon Studios, dopo essere stato per anni nelle mani della Sony Pictures, The Tender bar è tratto dalle memorie autobiografiche scritte da J.R. Moehringer e rappresenta per il regista George Clooney un bagno di (felice) umiltà, che lo distacca da un trio di (mezzi?) passi falsi (Monuments men, Suburbicon, The midnight sky), arrivati dopo direzioni d’autore che, al contrario, avevano ricevuto parecchi consensi (Confessioni di una mente pericolosa, Good night, and good luck, Le idi di marzo).
Trattasi, senza alcun sotterfugio, di un racconto di formazione agrodolce, che segue la crescita di JR dall’infanzia fino alla sua completa maturazione (step: bambino – adolescente/studente – giovane uomo/lavoratore – uomo compiuto), snocciolando i tipici termini attinenti al caso, con una famiglia disfunzionale, sfide che si susseguono, mancanze intollerabili e angeli custodi, spazi incoraggianti e situazioni disagevoli.
Una comfort zone ventilata, scandagliata da un’ossatura (pre)definita, con un’encomiabile bilanciamento tra le fasi, anche quando rimbalza – attività che compie ricorrendo a ripetute ellissi - tra diversi piani temporali, alternando al fianco di JR tutti i suoi satelliti. Un modus operandi che dipinge un caleidoscopio emotivo, che sintetizza l’amore materno e l’abbandono paterno, gli altri affetti familiari (nonno e zio) e il primo amore che non si scorda mai, qui ratificato in forma ritornante (nel suo insieme, la sottotrama meglio espressa, nei suoi tanti lampi e squarci, nel suo comparire e scomparire con imperturbabile disinvoltura).
Una geografia di affetti e umanità configurata con cura, mobilità e nitore, in tutte le sue finiture, infarcita di scelte musicali deliziose, contrappunti della voice over e di una cornice selezionata senza lasciare nulla al caso, un packaging che non si rintana principalmente nell’effetto nostalgia (tutto si svolge tra gli anni settanta e ottanta), bensì in quelle emozioni che tutti conosciamo, coadiuvate da un cast in forma smagliante, che offre più punti luce, configurando una croccante parcellizzazione.
Segnatamente, Tye Sheridan si dimostra, una volta di più, affidabile e adattabile, Lily Rabe riempie il tempo disponibile con oculatezza, Christopher Lloyd coglie l’attimo (quell’unica scena in cui esce dallo sfondo), mentre per Ben Affleck vale un discorso analogo a quello precedentemente formulato per il regista, in quanto si leva di dosso le tante scorie accumulate negli anni (al top dopo il suo Batman di Batman v Superman e Justice league), sfruttando un ruolo terapeutico, grazie al quale diventa empatico, dispensando lezioni di vita (dietro al bancone del bar) che a tanti non dispiacerebbe affatto ascoltare (almeno per farsi un paio di drink in compagnia).
In sintesi, in The Tender bar un po’ tutto torna utile per sfornare una ciambella con il buco, producendo un aroma intenso, versatile e diversificato, suggerendoci che siamo padroni del nostro destino e come sia sempre possibile rimettersi in sesto o, comunque sia, almeno fare la cosa giusta. Tra rancori e affetti, ruggini e guarigioni, aspettative e delusioni, andate e ritorni, chi predica bene e chi razzola male, opportunità e sfide, sbronze e risvegli, porte aperte/chiuse, sconfitte e conquiste.
Sfuggente e pulsante, assortito e fragrante.
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