Regia di Leonardo Guerra Seràgnoli vedi scheda film
A la-vo-ra-re!
Contraltare e corollario - in distanziata interazione reciproca, qui profondamente e puramente pariolina - a “i Predatori” (l’opera prima di Pietro Castellitto Mazzantini), “gli Indifferenti”, il terzo lungometraggio - dopo “Last Summer”, scritto con Igort e Banana Yoshimoto, e “LikeMeBack” - di Leonardo Guerra Seràgnoli (classe 1980), messo in scena 90 anni dopo l’originale inchiostro d’esordio (lo pubblicò a 22 anni, ma iniziò a scriverlo a 17) di Moravia del ‘29, 55 dopo la prima trasposizione cinematografica di Maselli per Cristaldi di metà anni ‘60 e 30 dopo la mini-serializzazione di Bolognini per la Fininvest di fine anni ‘80 -[ma è impossibile non pensare anche (senza spingersi sino alla desadeitudine de “la Vita Interiore”), per tematiche comuni e consecutive, a “la Noia”, pubblicato a distanza di 30 da quell’a suo modo placidamente dirompente opera prima, nel ‘60 (e in mezzo Agostino, la Romana, il Conformista, il Disprezzo, la Ciociara), e portato sul grande schermo da Damiani nel quasi immediato e poi da Cedric Kanh sul finire del secolo, 40 anni dopo]-, parte da una stessa extra-diegesi, la borghesitudine del regista e - qui con Alessandro Valenti, collaboratore di Edoardo Winspeare per i suoi ultimi, splendidi film: “Galantuomini”, “In Grazia di Dio” e “la Vita in Comune” - sceneggiatore (“Essendo nato e facendo parte di una società borghese ed essendo allora borghese io stesso, "Gli indifferenti" furono tutt'al più un modo per farmi rendere conto di questa mia condizione. [...] Che poi sia risultato un libro antiborghese è tutta un'altra faccenda. La colpa o il merito è soprattutto della borghesia...”), e la trasla, traduce, trasfigura e sviluppa con un tocco di maturità in più (il tòpos della pistola scarica, luogo comune nato con l’invenzione delle armi da fuoco, è un espediente tratto del romanzo, così come quello, legato alla sorella, del vomito durante il primo tentativo, alcolico, di violento approccio sessuale da parte del “patrigno”).
La collaborazione fra regìa/sceneggiatura, attori e macchina da presa raggiunge in non poche occasioni un livello encomiabile. Il ritmo c’è, lo stile e la forma ci sono, la sostanza e il contenuto non sono gratuiti.
Due long take, quello (1’40’’) laterale semi-fisso sul volto di Valeria Bruni Tedeschi, una magnifica (-mente attraente/respingente) MariaGrazia, madre e vedova, che dal principio d’orgasmo sfuma in un barlume di vergogna dettato da un’oncia di consapevolezza verso il viscido opportunista e laido arrivista Leo (un Edoardo Pesce come sempre eccellente, e come sempre spaventoso: “Romanzo Criminale - la Serie”, ““il Ministro”, “Fortunata”, “Cuori Puri”, “DogMan”, “la Stanza”), e quello frontale finale, campo lungo e medio (1’10’’) + primo e primissimo piano (50’’), sul viso di Beatrice Grannò (“Tornare”, “Mi Chiedo Quando Ti Mancherò”, “Zero”, “Security”), bravissima nei panni di una Carla aggiornata in versione ex-Lolita, novella…
Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l'uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno alle gambe; ma ella non se ne accorse e si avanzò con precauzione guardando misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura; una sola lampada era accesa e illuminava…
...maggiorenne e futura live-streaming (ciccia)gamer “professionista”, dedita a nutrirsi e sopravvivere (l’attualizzazione del romanzo nato negli anni del ventennio fascista ha qui il suo cambiamento maggiore: al posto di un contratto matrimoniale “riparatore” vincolato dalla consuetudine dettata da una comunità che la richiede ecco in vece una denuncia alle forze dell’ordine “risolutrice” nata da una libera decisione autonoma in una società che ne consente il verificarsi), e almeno un altro paio di piani-sequenza mobili, protratti a lungo e abitati da più corpi e voci (abbastanza indimenticabile per la repulsione che riesce a provocare la scena dell'assalto sessuale, con l'entrata in tanatosi della vittima: "Mi pesi così...").
E Gian Filippo Corticelli (“Paz!”, “la Finestra di Fronte”, “Nessuno Si Salva da Solo”, “Fortunata”, “Napoli Velata”, “la Dea Fortuna”) ci aggiunge di suo anche un morbido doppio scatto trasversale della MdP simulando una “blanda” scossa d’assestamento di uno sciame di movimenti tellurici: oh, è la rappresentazione fra quelle cui ho assistito che, in barba a qualsiasi film di genere catastrofico, riesce a rendere meglio (rispetto alla mia fortunatamente scarsissima esperienza in tal senso) la sensazione di spaventosa vertigine e pervasivo spaesamento causati dal moto sussultorio ed ondulatorio di un terremoto.
Montaggio di due capitani di lungo corso come Giogiò Franchini e Carlotta Cristiani, e lo si percepisce dalla precisa fluidità del tocco. Musiche molto belle, incisive e di carattere ad opera di Matteo Franceschini, compositore esordiente in campo cinematografico. Prodotto da Indiana (Cohen/Habib) con Sky/Amazon e capitali francesi, e distribuito da Vision.
Chiudono il cast una perfettamente calata nel ruolo e ben utilizzata Giovanna Mezzogiorno (un’interpretazione convincente, senz’altro più vicina, per forza espressiva, a quella, se pur breve, di “Lacci”, piuttosto che a quella, meno riuscita, di “Tornare”; interessante, comunque, notare il lavoro effettuato sul e col proprio corpo giustappunto in occasione di questo “trittico” filmico nel quale, dopo la callipigia bellezza moderna espressa - e come mai prima d’allora - in “Napoli Velata”, si fa più pieno, materno, “oscenamente consono”), un molto bravo Vincenzo Crea (Michele: figlio e fratello; “il Primo Re”) e, in tre piccole parti, Awa Ly, Blu Yoshimi e Denise Tantucci.
Se Moravia terminava il suo romanzo d’esordio lasciando MariaGrazia, la madre, a pregustare una piacevole serata, ancora inconsapevole di tutto, qui Carla, la figlia, decide di rivelarle la verità, ed è la donna adulta a fare orecchie da mercante (e nel suo sordo tacere, nel suo cieco silenzio e nel suo scopertamente folle stornar d'attenzione, lo scandalo, per dirla col Manzoni, è più manifesto) ed è la ragazza che, sul balconcino, il quale per un troppo lungo e terribile momento assume fuori campo l’aspetto di un trampolino, gusta masticando a bocca aperta un pezzo di focaccia, come in un film di Kechiche (da “la Graine et le Mulet” a “la Vie d’Adèle”). Pacificata con la propria vita interiore, poco annoiata, e men che meno (lo è più il fratello, rassegnato) indifferente a sé stessa.
* * * ¾ - 7.5
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