Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
Gli immaginari condivisi e cristallizzati su larga scala, quelli che hanno segnato un determinato settore diventando una fonte di ispirazione - sia diretta, sia indiretta -, qualora vengano ripresi e aggiornati, presentano vantaggi e svantaggi, richiedendo di essere maneggiati con una cura estrema.
Da una parte, le aspettative, inevitabilmente elevate, condizionano il giudizio e ogni scelta dirimente finisce per essere dissezionata nei minimi particolari. Dall’altra, ogni periodo storico richiede un’attualizzazione specifica, di apportare un pacchetto di adeguamenti, tenendo conto delle vicissitudini del momento senza tuttavia maltrattare la materia originale. Infine, proprio per quanto appena affermato, è praticamente impossibile accontentare tutti, conciliando le esigenze dei sostenitori della prima ora (il pubblico adulto), da non smarrire per evitare di ritrovarsi contro un plotone di esecuzione senza alcuna pietà, con le richieste dei profani (il pubblico giovane), da conquistare per non incagliarsi in un viatico privo di sbocchi.
Dune di Denis Villeneuve (Arrival) deve affrontare tutte queste insidie, implementate dalla lunga attesa determinata dall’emergenza sanitaria in atto dal febbraio 2020, un’impresa costellata di svariate difficoltà, che fronteggia un autentico fuoco incrociato. Scende a patti ma non svende l’anima al diavolo, sfoderando una configurazione calcolata nel dettaglio, portata avanti con una coerenza disarmante e, per certi versi, anche disarmata, a partire dalla sua essenza di apripista, che indica una strada demandando – si spera - al futuro l’ardua e definitiva sentenza (eventualmente, tutto andrà ricalibrato a fine percorso).
Anno 10191. Il duca Leto Atreides (Oscar Isaac – Il collezionista di carte) si appresta a prendere il delicato comando del pianeta Arrakis, determinante per l’intero universo in virtù della preziosa spezia di cui è ricco, subentrando agli Harkonnen, i nemici di sempre.
Dopo aver mandato in avanscoperta Duncan Idaho (Jason Momoa – Aquaman), arriva sul pianeta, insieme alla moglie Jessica (Rebecca Ferguson – Mission: Impossible - Rogue nation), al figlio Paul (Timothée Chalamet – Chiamami col tuo nome) e al fidato Gurney Halleck (Josh Brolin – Non è un paese per vecchi), trovando una situazione precaria, che precipita rapidamente a causa della controffensiva degli Harkonnen, guidati da Glossu Rabban (Dave Bautista – Guardiani della galassia).
Quando tutto sembra perduto, Jessica e Paul riescono a fuggire nel deserto, dominato da vermi giganti e famelici. Qui cercheranno di stringere una nuova alleanza con i Fremen, i nativi del pianeta, confrontandosi con Stilgar (Javier Bardem – Mare dentro), il loro leader.
Nel frattempo, il giovane Paul mostra di possedere e maneggiare delle abilità fuori dal comune, anticipate da sogni premonitori - nei quali vede più volte Chani (Zendaya - Euphoria) -, tali da poter determinare le future sorti della disfida.
Diciamolo subito, di Dune se ne è parlato fin troppo, scatenando nel corso dei mesi un hype spropositato e sproporzionato, difficile da sostenere anche per una produzione da 165 milioni di dollari, forte di un cast extra large e supportato da professionalità di sicura garanzia, disseminate in ogni comparto tecnico.
Fatto sta che questa nuova versione si distacca nettamente dall’originale di David Lynch accorciando l’arco narrativo, scegliendo la concretezza e l’umiltà, nonché una visione scenica completamente diversa. Così, rinuncia a ogni velleità visionaria puntando su una messa in scena ferrea, che si alimenta della forte contrapposizione tra le architetture, tanto geometriche quanto cupe nella loro conformazione su scala di grigi, e un deserto abbacinante.
Contemporaneamente, alcune scene riportano la memoria all’originale, ma l’impostazione prevede un altro modo di agire, con una scansione a fuoco lento, un passo da maratoneta che mette ordine nelle rotte del destino evitando l’effetto luna park, cercando di dare risalto alla ricerca identitaria, all’incombenza di ordini superiori.
In pratica, traccia l’itinerario che potrebbe essere (vedi La compagnia dell’anello), tra presagi ed eletti che non sanno ancora di esserlo (Matrix), seguendo una prassi alimentata da una complessiva e sorprendente solennità, parzialmente mitigata da transitorie incursioni starwarsianizzate.
Quindi, Denis Villeneuve si spinge principalmente nei lidi di Blade runner 2049 per come si discosta dai consueti baracconi hollywoodiani imperanti, dando vita a un gigante che non fa la voce grossa, allestendo un risiko fondato su questioni geopolitiche trasportabili in realtà esistenti.
In tutto questo, nonostante l’attenzione riservata alle singole elaborazioni caratteriali, i comparti tecnici assumono un ruolo significativo, definendo una veste estetica squadrata. La fotografia di Greig Fraser (Zero dark thirty, Vice - L'uomo nell'ombra), forgia la coordinazione dell’insieme, il montaggio di Joe Walker (da Sicario in poi, sempre al fianco di Denis Villeneuve e fedelissimo di Steve McQueen) garantisce una continuità che limita i contraccolpi, mentre l’immancabile Hans Zimmer è più morigerato del solito, per quanto non esente da taluni contrappunti.
Nonostante la sua maestosa macchina produttiva, Dune è un film caratterizzato da una forza motrice assai personale, che non si preoccupa dei termini di paragone correlati alla sua portata evocativa, uscendone a testa alta. Offre un’immersione visiva che premia la qualità che solo il Grande Schermo può offrire, rafforzandone la posizione, e attua un esercizio di equilibrismo che non dimentica nulla (almeno non del tutto), pur avendo ben chiare le priorità, i suoi elementi portanti. Cerca di ampliare il target dell’audience, ma tratta con responsabilità la materia che amministra, senza paura di lasciare eventuali amari in bocca. Prende confidenza senza manie di protagonismo e semina con abnegazione posticipando buona parte del tornaconto, consapevole di non poter/dover finalizzare il suo operato, optando per una narrazione raccolta, senza grandi voli pindarici, ma con tanti gingilli da mettere in vetrina.
Parsimonioso e funzionale, pur senza essere particolarmente performante.
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