Regia di Joe Talbot vedi scheda film
HomeLand: the Hands that Built the City of Façade.
Il tempo mancato di una vita sospesa, recuperato con la breve la felicità di un viaggio di trasloco.
Poi, la verità irrompe nella realtà, e tutto crolla: e dalle macerie si salpa per il resto di un’altra vita.
Se può esistere la risultanza fattiva di una insorta quadrangolazione fra le peculiari arti di Jim Jarmusch (“Dead Man”, “Ghost Dog”, “Broken Flowers”, “the Limits of Control”, “Only Lovers Left Alive”, “Paterson”, “the Dead Don't Die”), Donald Glover aka Childish Gambino (“Atlanta”, “Guava Island”), Wes Anderson ("Rushmore", "the Royal Tenenbaums", "the Life Aquatic with Steve Zissou", "the Darjeeling Limited", "Moonrise Kingdom", "the Grand Budapest Hotel") e Spike Lee (“Lola Darling”, “Bamboozled”, “Red Hook Summer”, “Da Sweet Blood of Jesus”, “Chi-Raq”, “BlacKkKlansman”) - con una spruzzata in ulteriore aggiunta dell’indimenticato “the Flight of the Conchords” di Clement/McKenzie e del recente “Sorry to Bother You” di Boots Riley -, ecco che può senz’altro essere codificata, cristallizzata, espressa, rappresentata e riassunta da questo primo lavoro nel lungometraggio di Joe Talbot, classe 1991 da San Francisco, il quale, partendo da un soggetto suo e dell’attore protagonista e amico d’infanzia, Jimmie Fails (col quale aveva già diretto due cortometraggi, “Last Stop LiverMore” ed “American Paradise”, oltre ad aver licenziato, tre anni prima di portare a termine la sua opera d’esordio sulla lunga distanza/durata, un “pre-trailer di presentazione” atto a promuovere una campagna di crowdfunding su KickStarter relativamente proprio alla futura produzione del film in esame: una volta abbondantemente raccolti i fondi preventivati, a quel punto si sono aggiunti la Plan B Entertainment di Brad Pitt e soci a produrre moltiplicando il budget e la A24 - ovvero più che una garanzia: una certezza di qualità - a distribuire), scrive anche la sceneggiatura con Rob Richert (e l’aiuto ulteriore in fase di sviluppo di Emma Nicholls e Fritzi Adelman): ed è proprio, quind’infatti e però, la parte letteraria dell’opera quella che emerge prepotente ai sensi dello spettatore: parimenti che Cinema (comunque presente in “the Last Black Man in San Francisco” in maniera evidente, compiuta e deflagrante), allora, è la letteratura postmoderno-massi(mini)malista a dialogare col e promanare dal film: Jonathan Lethem, Ben Marcus, Percival Everett, Raymond Carver, Steve Erickson, Matt Ruff, Kurt Vonnegut, Richard Brautigan, Steven Millhauser, eccetera eccetera).
E, là dove, verso la fine sfinita in meta-teatrale rappresentazione, la trama pian piano s’appiana risolvendosi mentre si dipana in maniera prevedibile (una qualità/caratteristica neutrale di per sé: né negativa né positiva) sino alla "rivelazione", ecco che, proprio ad accompagnare gli esiti di quel momento, subentra di nuovo il Cinema, ovvero il Montaggio - che della settima arte n’è il dispositivo sintattico principale -, per mezzo della marea oceanica che sale e cresce a (s)vista d’occhio a ricoprire il limo del porto [con i cantieri navali, le super-petroliere e le portaeree in lontananza uggiosa come se fossimo - spostandoci dalla pacifica westcoast di San Francisco all’atlantica east coast di Baltimora - in una evoluzione dei dioramanti fondali in trompe l'oeil del “Marnie” di Hitchcock (e, per rimanere in zona Sir Alfred, un Golden Gate Bridge così inusuale non lo si ammirava da “Vertigo”… O, beh, dal “the Bridge” di Eric Steele...), con la prospettiva che dalle faglie esposte precipita verso l'orizzonte marino...], su cui getta le fondamenta il molo che sostiene i due amici, giusto il tempo di un abbraccio.
Completano il cast: Jonathan Majors, l’alter-ego infra/extra razziale del regista; Danny Glover (recentemente rivisto anche, oltre che nei già citati “the Dead Don’t Die” e “Sorry to Bother You”, in “the Old Man & the Gun”, e protagonista del prossimo al rilascio “the Drummer”); Rob Morgan, Tichina Arnold, Mike Epps, Antoine Redus, Jamal Trulove, Finn Wittrock, Willie Hen, Maximilienne Ewalt, Michael O’Brien, Jello Biafra…
Valore aggiunto e imprescindibile: la sorprendente fotografia (1.66:1) di Adam Newport-Berra (“GreenWood”, “Approaching the Unknown”, “Barry”, “Euphoria”): vi è qualcosa...
...di sincero e necessario, e follemente profondo e preciso, in ogni sua ritraente inquadratura iperrealistica.
Montaggio: David Marks (“Don't Worry, He Won't Get Far on Foot”, “the Night House”). Scenografie: Jona Tochet. Musiche originali, ottime: Emile Mosseri (“HomeComing”), che qui ri-arrangia col regista, la tuba di Daniel Herskedal e la voce di Mike Marshall una versione della “San Francisco (Be Sure to Wear Flowers in Your Hair)” di John Phillips resa celebre da Scott McKenzie. Poi: Joni Mitchell, Jefferson Airplane, Michael Nyman, SweetWater…
È inoltre un commovente piacere ritrovare Thora Birch in una minuscola e fulminea apparizione (non può essere altri che l’evoluzione… colonizzata/gentrificata della Enid del “Ghost World” di Clowes/Zwigoff: ma una luce negli occhi, abbassati, per un attimo, in un atto di comprensione ed imbarazzo, c’è...).
- Voglio bere il mio caffè e grattarmi il culo mentre leggo il giornale.
- Tu non leggi il giornale, Jimmie.
- Perché non ho mai avuto una casa dove leggerlo.
HomeLand: the Hands that Built the City of Façade.
* * * * ¼
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