Regia di Kornél Mundruczó vedi scheda film
Perfetto esempio di quanto e di come possa miseramente fallire il cinema europeo, eguagliando in rozzezza la peggio Hollywood, quando non sa che pesci pigliare in sede di scrittura, affastellando uno stereotipo dietro l’altro, e quando affida ogni idea registica al soccorso di effetti speciali di cui abusare impunemente.
Il copione mette insieme una serie di figure, situazioni, psicologie, sociologie che rispondono algoritmicamente alle aspettative di un certo tipo di spettatore progressista ma cinematograficamente incolto: il profugo spaurito e indifeso; il “dottor house” di turno con senso di colpa annesso (l’uccisione accidentale di un paziente, idea trita e ritrita, copiata fra gli altri da un film recente come il “Cervo Sacro” di Lanthimos, di ben altro spessore; così come il continuo via vai di soldi in nero rimanda superficialmente ai capolavori “noul val” di un certo Mungiu); lo sbirro malvagio e fuorilegge; la donnetta cinica ed isterica; il razzistone pelato e ignorante; persino la macchietta gay con già preconfezionata la battuta moralistica da talk show gruberiano. La sceneggiatrice (Kata Weber, moglie del regista) combina aleatoriamente temi cruciali come la fede religiosa, la paternità putativa (qualcuno ha parlato di Dardenne?), l’immigrazione, il nazionalismo, affidandone il goffo svisceramento a dialoghi pieni zeppi di sottolineature e spiegoni.
La regia non aiuta. Non c’è regia in realtà. C’è inettitudine, insensibilità, incapacità di leggere il testo ed il contesto: roba da far rabbrividire il Truffaut dei Cahiers (ma anche solo chi mastica un pochino di cinema da qualche anno). Uno stile ottuso, virulento, monocorde, esibizionista, tutto piani-sequenza (truccati) e mirabolanti effettoni spielberghiani che dopo mezzora di film suonano ripetitivi, ridondanti, gratuiti: il senso del meraviglioso svanisce presto in irritazione, sbadigli e persino sconcerto nel sanguinolento finale da action b-movie. Senza contare certe banali derive melodrammatiche, che provano maldestramente a compensare il greve cinismo di fondo nella rappresentazione dell’Ungheria odierna.
In questo film, scipt e regia gareggiano davvero a chi fa peggio: è più sfocata e pretestuosa la sottotrama sentimentale o è più futile la soggettiva dell’inseguimento in auto? È più strampalato il susseguirsi di personaggi mal delineati o è più colpa di una direzione che a malapena maschera la fiacchezza di fondo con il triviale ottovolante della messa in scena? Forse Mondruczo pensava di sfidare il connazionale Nemes, la sua nemesi, fautore (nel debutto con “Il figlio di Saul”) di una idea di cinema radicale, fondata su di una “anti-soggettiva” che esclude il contro-campo: l’esatto opposto dell’iper-visibilità spettacolare e falsa di questo film.
All’ennesima, prevedibile levitazione del protagonista, si ha quasi la sensazione che il regista voglia come prendere tempo, distrarre lo spettatore dal disastro in corso. Il comparto attoriale, rigido e senza carisma, contribuisce al fallimento di un'opera ambiziosa ed arrogante, che giochicchia con le tragedie del nostro tempo, spreca uno in fila all'altro spunti che in altre mani avrebbero anche potuto arare il terreno per il capolavoro (pensiamo al "Ricky" di Ozon...quello sì che era un angelo!), rastrella idee dal discount del cinema d'autore europeo contemporaneo, spiattella metafore leggibilissime per poi concedersi un'ultima sequenza scioccamente enigmatica. Un naufragio cinematografico senza alcuna possibilità di salvezza.
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