Una delle conseguenze più evidenti prodotte dalla cosiddetta civiltà dell’immagine è l’abitudine a un determinato numero di canoni visivi al di fuori dei quali ogni rappresentazione non appare altrettanto veritiera. Nel cinema, tale assuefazione diventa limite allorquando sia registi che pubblico si convincono che esista un solo modo di raccontare e che, per esempio, a una questione di scottante attualità come quella dei flussi migratori debbano per forza corrispondere impianti ad alto tasso di realismo. Fin qui nulla di sbagliato, se è vero che ogni scelta è lecita e che a contare alla fine è la bontà del risultato. Ciò che non torna è, invece, la diffidenza e i dubbi con cui vengono accolti i lavori di coloro che si incamminano su strade meno battute e al di fuori della norma. È ancora vivo il ricordo dello sconcerto di fronte a sequenze come quella di "Nuovomondo" di Emanuele Crialese, nel quale il senso di perdita legato alla ricerca di una nuova patria trovava conforto nell’oceano di latte in cui a un certo punto si ritrovano a galleggiare i protagonisti, oppure al presagio sulla fine della civiltà europea, preannunciata dalla simbolica presenza dei campi profughi nei pressi della cittadina dove vive la famiglia raccontata da Michael Haneke in "Happy End".
A reazioni analoghe potrebbe dare luogo Una luna chiamata Europa (Juppiter Moon) diretto da Kornel Mundruzco. nel quale la chiusura delle frontiere disposta dal governo ungherese per evitare l’afflusso nel paese di cittadini extracomunitari viene trasfigurata nella vicenda di Aryan, profugo siriano in fuga dalla polizia che lo vuole arrestare per un reato mai commesso, e del dottor Stern (l’ottimo Merab Ninidze), il medico intenzionato a sfruttare la facoltà del ragazzo di librarsi in aria e di sorvolare il cielo a proprio piacimento. Non è la prima volta che Mundruzco utilizza il fantastico e il soprannaturale, avendovi fatto ricorso nel precedente White God: questa volta, però, l’impiego che ne fa risulta a dir poco straniante, poiché la forza d’astrazione insita nella materia in questione viene messa a servizio di una narrazione ampiamente radicata nell’immaginario dello spettatore, per l’abitudine con la quale giornali e televisioni si occupano del fenomeno dell’immigrazione. Calato nella realtà dei nostri giorni, riconoscibile dalla famigliarità delle architetture metropolitane e nell’anonimato delle tendopoli abitate dai poveri malcapitati, cionondimeno Una luna chiamata Europa si spoglia di riferimenti geografici e temporali per diventare sineddoche dell’intera compagine continentale. Ne città, né nazione, lo spazio in cui si intreccia il rapporto tra Aryan e Stern, sconfina in una vera e propria interzone nella quale l’assenza dell’utopia distopica su cui si fondavano film come Blade Runner è pareggiata dall’esistenza di uno scenario apocalittico simile a quello del lungometraggio appena menzionato.
In questo contesto Mundruzco conferma la capacità del cinema ungherese di entrare nella mente e nel cuore dello spettatore attraverso la rigorosa bellezza delle sue composizioni. Una luna chiamata Europa ne usufruisce non solo quando si tratta di filmare le scene più ardite, quelle in cui l’assenza di gravità permette ad Aryan di alzarsi al cielo, liberandosi dalle grinfie dei suoi persecutori, ma anche laddove si tratta di raffigurare situazioni più ordinarie, nelle quali i movimenti della mdp esprimono l’irrequietezza dei personaggi, senza venir meno ai principi di equilibrio e compostezza dell’impianto. Un’istanza che l’elemento narrativo non riesce sempre a perseguire per lo scarto esistente tra la semplicità dell’assunto, caratterizzato dalla volontà della polizia di catturare Aryan (e di quest’ultimo di ritrovare il padre) e i significati sin troppo scoperti dell’apparato metaforico: così appare il discorso relativo alla purificazione dello sguardo e l’invito a giudicare le cose attraverso una diversa prospettiva, che il regista affida alle immagini in cui vediamo le persone con lo sguardo rivolto al cielo per osservare il volo del protagonista; così sono i riferimenti cristologici attribuiti alla figura del giovane fuggiasco, destinati a rivelarsi in un ambito povero degradato come lo era quello descritto nella novella evangelica. Ma la qualità di un film come Una luna chiamata Europa non risiede nella logica dei suoi contenuti quanto piuttosto nella sua capacità d’osare e nel superare i propri difetti con il coraggio e la fantasia con cui mette in scena la sua ipotesi di universo. Questo basta a farne un’opera interessante e di valore.
(pubblicato su taxidriver.it)
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