Rispetto alle similitudini con due titoli come “Il matrimonio di Lorna” dei fratelli Dardenne e di “Marija” del tedesco Michael Koch, la sceneggiatura di “Fortunata” - scritta da Margareth Mazzantini - presenta tra gli altri alcuni elementi di discontinuità che ci danno lo spunto per entrare nel vivo della nostro discorso. Se nei film appena citati infatti le donne in questione sono cittadine straniere, disposte a tutto, finanche al delitto, pur di avviare l’attività che dovrebbe renderle realizzate e indipendenti, in quello di Sergio Castellitto la protagonista pur costretta ad affrontare le conseguenze di un matrimonio che l’ha lasciata con una figlia a carico e con un ex marito che le da il tormento, è comunque attenta a prendersi cura delle persone che le vivono accanto. Se ciò non bastasse a distinguere il film nostrano dagli altri due è la volontà di indagare il disagio di una condizione culturale ed economica - quella di Fortunata che vive in un quartiere fatiscente della periferia romana ed è costretta a indebitarsi con i cinesi per pagare le spese del negozio - che un tempo era prerogativa dei cosiddetti “ultimi arrivati” mentre oggi, alla luce della recessione causata dalla crisi mondiale, è diventa il presupposto che accomuna gli italiani alla miriade di immigrati che vengono a vivere nel nostro paese. Questo per dire di come il testo della Mazzantini al di là della poca originalità del soggetto potesse comunque contare su una spiccata predisposizione drammaturgia - monopolizzata dalle doti melodrammatiche della madre coraggio impersonata dalla Trinca - e sulla scelta di un punto di vista non banale (seppur già sfiorato da Ivano De Matteo nel suo “Gli equilibristi”) sulla realtà contemporanea.
Alle prese con una sceneggiatura ipertrofica di temi e di disgrazie Castellitto invece di lavorare di sottrazione sceglie una regia generosa ma eccessiva a cominciare dalle immagini, opulente di colori e di divismo (certe pose di Accorsi e della Trinca sembrano prelevate dai fotoromanzi) per continuare con la predilezione di un registro che la recitazione “urlata” degli attori rende quasi sempre esageratamente sopra le righe. Attraversato da intuizione visive non banali come quella della panoramica dall’alto in cui la diversa occupazione dello spazio - dominante quella della moltitudine di cinesi impegnati in una lezione di tai chi, minoritaria quella dei loro dirimpettai italiani, sparuti e costretti in un fazzoletto di terra - che la dice lunga sulle trasformazioni in atto nel tessuto urbano della città, “Fortunata” non riesce a far perdere ai suoi interpreti e, in particolare, alla Trinca, l'allure tipico di chi conosce il mestiere e sa come ci si comporta davanti alla mdp. In questo modo il film rimane in mezzo al guado che separa il vero dalle sue imitazioni, decretando l’irresolutezza di un lungometraggio da cui era lecito aspettarsi di più. Per la sua interpretazione Jasmine Trinca ha vinto il premio come migliore attrice nelle sezione Un certain Regard.
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