Regia di Makoto Shinkai vedi scheda film
Non sono mai stata particolarmente attratta dagli anime, l’unica cosa che credo di aver visto è firmata Hayao Miyazaki ed è niente poco di meno che Il castello errante di Howl che, nemmeno sto qui a dirvelo, mi è piaciuto moltissimo. Nonostante ciò però non ho mai sentito l'esigenza di approfondire il genere, finché il titolo in questione, non mi è stato consigliato da un collega di lavoro, curioso di conoscere il mio parere, dopo aver saputo della mia passione per il cinema.
A colpire fin da subito sono, ovviamente, i colori, come in ogni film d’animazione giapponese che si rispetti, ecco perché non lo considereremo un elemento di vanto. Laddove la struttura di un’opera finisce per rappresentare un genere, gli elementi che variano e che quindi finiscono per differenziare un prodotto dall’altro restano davvero pochi, il fondamentale è sicuramente la sceneggiatura, intesa non solo come contenuto ma anche e soprattutto come metodo di narrazione.
Insomma, non è importante tanto quello che racconti, ma come lo racconti e il fatto che a narrare la storia di Taki e Mitsuha sia lo stesso autore del romanzo omonimo a cui si ispira, credo finisca per fare la differenza; sia chiaro, non è scontato che uno scrittore, per quanto bravo possa essere su carta, sia poi anche capace di esprimere in immagini ciò che narra, ma nel caso di Makoto Shinkai sembra che entrambe le arti finiscano per convogliare.
Il modo in cui decide di mostrarci la storia di due giovani che durante il sonno scoprono di scambiarsi le vite, svegliandosi letteralmente l’uno nel corpo dell’altra, intrecciando senza sosta la narrazione, pur mantenendo ben visibile il filo di conduzione del racconto, è davvero accattivante. Lo stesso utilizzo dei flashback o dei flashforward e le intersecazioni della narrazione, non sono mai casuali o fuori luogo, tutto è pensato a regola d’arte.
Affascinante a tal punto che ben presto, chiunque si trovi a guardare il film finisce per archiviare la consapevolezza di essere di fronte ad un “cartone animato” e prende invece finanche quasi coscienza che ciò che vede sia frutto di una reale messa in scena e di vera e propria recitazione attoriale. Quando i confini tra animazione e recitazione diventano così labili da essere quasi varcati, allora siamo di fronte ad un fenomeno, inteso come "oggetto di meraviglia e di ammirazione" della settima arte.
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