Regia di Stephen Chbosky vedi scheda film
«La grandezza non risiede nell’essere forti, ma nell’uso giusto della propria forza. È più grande colui che conquista il maggior numero di cuori grazie all’attrazione del proprio».
La gentilezza, questa illustre sconosciuta. Certo, ogni piccolo gesto caloroso non può essere atteso come se fosse dovuto, ma va conquistato. Per alcuni è più facile, per altri lo è assai di meno.
Wonder è un’epitome, discettato in formato grande pubblico, di quanto certi bisogni siano comuni ma anche di come la strada per arrivare a conquistarli possa essere diversa. Questione di background e posizione acquisita, così che c’è chi ha bisogno di ricevere continue attenzioni e chi aspetta a braccia spalancate semplicemente quella giusta.
Per colpa di una rara malformazione facciale rilevata alla nascita, August Pullman (Jacob Tremblay) ha sempre studiato a casa grazie alle premurose attenzioni di sua madre Isabel (Julia Roberts) che, insieme al marito Nate (Owen Wilson), decide come per il piccolo di casa sia arrivato il momento di scoprire il mondo fuori.
Così, tra mille preoccupazioni, August comincia a lottare per conquistare il suo spazio nel mondo con l’avvento della prima media. Per lui, ogni quarto di miglio messo a referto è un trionfo, ma anche chi lo circonda può imparare qualcosa di nuovo grazie alla sua presenza. E poi c’è anche chi, come sua sorella Olivia (Izabela Vidovic), si trova in un momento altrettanto delicato, senza poter ricevere le medesime attenzioni.
Dopo gli adolescenti di Noi siamo infinito, Stephen Chbosky fa un passo indietro lungo il sentiero della vita, così come Jacob Tremblay – l’interprete principale - ne compie metaforicamente uno in avanti al personaggio interpretato in Room, diverso per condizioni di partenza ma completamente assimilabile per status nei confronti dei suoi pari età.
Senza agitare i massimi sistemi e usufruendo di un’esposizione che arriva sempre al dunque con straordinaria immediatezza, Wonder draga una serie di spazi, manifestando una spiccata ricchezza di complementi.
Infatti, se il percorso principale - quello riservato ad August - una volta riavvolto il nastro presenta esattamente l’inizio e il finale che chiunque attenderebbe leggendo una qualsiasi sintesi della trama, è il contorno ad attribuirgli un senso compiuto. Le esigenze principali sono le sue, ma poi quasi tutti i personaggi principali – e non solo – hanno il loro tornaconto, così che August sarà pure il sole, ma i pianeti che gli ruotano attorno non sono fatti di cartapesta.
Non si parla di miracolo artistico, ma vedendolo si capisce subitaneamente come mai altrove abbia già avuto un successo enorme (si spera replicato anche da noi). Insomma, le deviazioni diventano strade altrettante importanti per mostrare come le persone siano diverse e in continua evoluzione, come i piccoli gesti possano fare tutta la differenza del mondo e quanto gli errori siano ammissibili e ammettano comunque una seconda possibilità.
Ciò avviene grazie a un’ossatura leggera ma pienamente consapevole e alla battuta sempre pronta, con l’aggiunta di un pizzico di giustificata – in quanto veicolo per sfuggire dall’incombente realtà – fantasia, riversata sul fronte d’innesti rassicuranti provenienti dall’universo di Star Wars e più semplicemente dalla passione per l’astronautica, partendo da un casco utilizzato dal protagonista per nascondersi dal mondo di cui ha un timore pazzesco e giustificato.
In questo ecosistema, piccolo per dimensioni ma perfetto per essere riletto – e assorbito - universalmente, anche il cast ha una sua precisa connotazione. Jacob Tremblay è il ragazzino del momento (il pluripremiato Room, l’horror Somnia e il flop Il libro di Henry), mentre sono più insospettabili le presenze di Owen Wilson e Julia Roberts. Il primo conquista la maturità senza perdere del tutto un piglio scanzonato propedeutico alla contingenza, la seconda si applica con devozione per essere semplicemente ciò che un’attrice della sua età dovrebbe (poter) interpretare, ossia una madre sempre sulle spine, che scalda l’anima semplicemente per il suo modo di essere.
Tutti allori per un film che non possiede le armi per accendere la pura gioia cinefila, anche in virtù di alcuni escamotage al saccarosio che sopraggiungono in formato incauto soprattutto all’avvicinarsi della conclusione, ma che ha un grande vantaggio: riesce ad andare oltre quanto descrive tramutandosi in spaccato universale, regalando quelle forti emozioni per tutta la famiglia che sono sempre più rare e per le quali non può che essere caldeggiato. Tra gioie e dolori, lacrime e risate, fioccano i problemi di tutti i giorni, semplicemente riparametrati su un caso speciale.
Di natura espansiva, tale da consentirgli di non mettersi a fare – almeno non solo - una semplice somma algebrica dei fattori che lo animano per attribuirgli un giudizio.
Un piccolo esempio di cosa voglia dire essere comuni e speciali allo stesso tempo.
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