Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
Blade runner 2049 ha bisogno di tempo, quello che oggi non è più dato di avere, al cospetto di una frenesia onnipresente, che divora ogni cosa solo per il gusto di deglutire senza fare caso ai sapori. Automaticamente, assume la forma di un rifugio: se il futuro annienta l’umanità, non c’è niente di cui sorprendersi.
«In ogni opera c’è una parte del suo artista».
Esattamente come enucleato in un’affermazione presente, in Blade Runner 2049 è evidente la mano dell’artista, di una sinergia d’intenti d’alta levatura, che raramente capita di ritrovare assemblati l’uno con l’altro.
Lo scheletro del passato – Blade runner – incontra il presente – un autore come Denis Villeneuve sempre più proiettato verso un luminoso orizzonte - guardando al futuro, quel 2049 che non può fare a meno di proporre un pianeta negletto, svuotato dalla vita, dominato da scenari tecnologici, sconfinati deserti di sabbia e residuati dell’oggi, con quanto conosciamo per lo più limitato a ologrammi che permettono di estraniarsi dal grigiore.
Un insieme coerente, in parte – necessariamente - derivativo, con alcuni tasselli che proprio non rientrano in un organigramma coordinato, un’occasione che dall’alto di una produzione onnipotente – con una spesa sui 150/200 milioni di dollari – non guarda al disegno attuale, rigorosamente orientato su un cinema formato mordi e fuggi.
Probabilmente non entrerà nel mito, almeno non a breve (capire quanto accade tra un anno è difficile, figuriamoci andare oltre), ma non si tratta di mera speculazione su un marchio cult, già questo riempie d’orgoglio e merita rispetto e, perché no, riconoscenza.
Los Angeles, anno 2049. Durante un’operazione come tante altre, K (Ryan Gosling), un replicante al servizio delle autorità, scopre un indizio che lo spinge ad andare oltre le sue usuali consegne, mentre il controllo sui replicanti è da tempo sotto l’egida di Niander Wallace (Jared Leto). Costretto dal suo superiore Joshi (Robin Wright) a lasciare il suo incarico ufficiale, e con poche ore a disposizione, K si mette sulle tracce di Rick Deckard (Harrison Ford). Non sarà l’unico.
«Morire è l’azione più umana che possiamo compiere».
Le prime avvisaglie di un salto – almeno produttivo - verso l’alto erano arrivate con Arrival, ma, arrivati a questo punto, anche Denis Villeneuve rientra a pieno titolo nella short list degli artefici di blockbuster d’autore che, da qualche anno, comprende Christopher Nolan (Inception, Interstellar), Quentin Tarantino (Bastardi senza gloria, Django unchained), Alfonso Cuaron (Gravity), Alejandro G. Inarritu (Revenant), prossimamente Guillermo Del Toro (The shape of water) e da molto più tempo Ridley Scott (di recente, Exodus: Dei e re, Sopravvissuto – The martian), nume tutelare dell’operazione (nessuno può pensare che non abbia seguito lo sviluppo dal primo all’ultimo passo).
Blade runner 2049 guarda inevitabilmente al pregresso, sarebbe stato un diletto non farlo, con un tipico spirito saudade, ma rimane un sequel apocrifo, acquisendo riferimenti evidenti, aggiornando le considerazioni, puntando su un’estetica percettiva lussureggiante, stimolando sia lo sguardo, sia l’ascolto, senza effettuare una copia carbone.
Il discorso identitario è sempre più vivo, in linea con i subbugli odierni, soprattutto per quanto concerne il significato stesso di umanità, che, per forza di cose, non è più esclusiva dell’essere umano in quanto tale anzi, già oggi per abitudine siamo abituati ad attribuirne il valore più agli animali che ai nostri simili.
Contemporaneamente, il futuro ipotizzato è un post tutto artificiale, svuotato e inospitale, quello che non vorremo mai vedere ma che, chissà in quali forme, vedremo.
Questo impasto, sceneggiato nuovamente da Hampton Fancher e da Michael Green (di recente attivissimo e ricercato, tra Logan – The wolverine, Alien: Covenant, il prossimo Assassinio sull’Orient express e nel seriale American gods), e governato da Denis Villeneuve come se avesse diretto operazioni del genere da quando è nato (considerando le voci su prossime revisioni a lui affidate di Cleopatra e Dune, meglio così), sceglie di annullare, o almeno morigerare, la componente gratuitamente spettacolare, dilata i tempi, preferendo agire sulla persuasione a lunga gittata, dispiega il suo armamentario, aggiungendo gradatamente le frecce al suo arco.
In questo modo, sono i sensi di vista e udito a convogliare la stimolazione più istintiva, con una magniloquenza simil nolaniana ma depurata degli eccessi (che non sono obbligatoriamente da intendere come dei freni), per uno sterminato bombardamento di input che rendono opulento lo scenario. Volendo, ci sono così tanti frangenti chiaramente identificati, che sarebbe possibile immortale micro sequenze di pochi secondi e crearvi attorno una vera e propria galleria dall’effetto ammaliante, da visionare e catturare senza la necessità di un procedimento filmico alle spalle.
Per quanto sia di seconda battuta, un altro fattore è determinato dal capitolo interpreti. Ryan Gosling calza a pennello in un ruolo che non richiede necessariamente miracoli espressivi (a un certo punto, sembra di rivederlo appena uscito da Solo Dio perdona), Harrison Ford è celato al punto giusto e il suo ingresso sortisce effetti migliori rispetto a quanto accaduto in Star Wars - Il risveglio della forza e in Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, giusto per citare gli altri seguiti dei suoi ruoli iconici che hanno segnato (almeno) una generazione, mentre il tridente femminile, costituito da una sensuale e calda Ana De Armas, la fredda e spietata Sylvia Hoeks e l’audace Mackenzie Davis, offre a ognuna il suo spazio, coprendo un bel dedalo di necessità. Infine, su Jared Leto, richiamato con eccedenza equivoca sui manifesti, aleggiano i maggiori dubbi. Dopo Suicide squad, ancora una volta è ai margini, soprattutto, il suo personaggio in stile santone, ha lo stesso effetto di un pugno in un occhio, completamente fuori fase rispetto al mood che guarda con scrupolo persino alle virgole, con una produttività fattiva di bassa rilevanza.
Un vizio di forma che ne sopravanza altri, come alcune scelte narrative tali da richiedere ulteriori visioni e confronti, anche perché il suntuoso lavoro di Roger Deakins alla fotografia (sarà finalmente l’ora per consacrarlo una volta di più con il premio Oscar, sempre negato nonostante tredici candidature?), le scenografie annichilenti di Dennis Gassner (premio Oscar per Bugsy e più volte al lavoro con i fratelli Coen) e il tappeto sonoro ad opera di Benjamin Wallfisch e Hans Zimmer, che scelgono di smarcarsi completamente dal sound dell’originale, tendono a distogliere l’attenzione da eventuali magagne.
Ad ogni modo, è difficile chiedere di più a Blade runner 2049, che un dono l’ha già fatto: nonostante il production value da far girare la testa, non offre il fianco al pubblico da pop corn, scegliendo ostinatamente la via più difficile, quella d’autore, che forse darà il suo tornaconto tra pochi mesi (eventuali nomination agli Oscar cambierebbero le carte in tavola, almeno per quel pubblico che sembra non voler arrivare), forse tra qualche anno (ripercorrendo la strada di Blade runner, magari ne riparleremo), forse mai.
Polifonico per come sollecita i sensi e aulico per come rifiuta di diventare materiale da merceria all’ingrosso, più contradditorio per scelte dispositive, soprattutto su alcuni collegamenti (almeno da rivedere su una seconda visione) e sul personaggio, totalmente out of contest, di Niander Wallace.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta