Dov’è la Storia nei film di Roman Polanski? Per lunga parte della filmografia di questo regista sembra non esserci. È lasciata fuori dalle stanze e degli appartamenti, dalle case in cui tutto è ambientato, dagli angusti corridoi in cui si svolgono i drammi e le angosce. Bussa alla porta con foga, ma non viene fatta entrare. Compare al massimo di soppiatto, ma nella forma di un’immagine ribaltata, uno spettro contorto, il riflesso fugace di qualcosa che ha a che fare con un dolore insopportabile, o meglio, con un male che non si può rappresentare.
Un male che prima assume le forme superficiali, momentanee, di asfittici salotti borghesi, di discorsi sospetti, dell’odore dei vecchi, di uno spiffero assurdo tra le certezze dell’identità; l’aspetto di una tenda pesante o di una stanza segreta, un’ombra che non scompare nel sole meridiano, un taglio sul naso, un’allucinazione al terzo piano di un palazzo. Un male che poi si fa maiuscolo, assoluto, del Diavolo: qualcosa di troppo grande da conoscere, da affrontare di petto, da guardare negli occhi (“Cosa avete fatto ai suoi occhi”, urlava Rosemary).
Il cinema di Polanski, per molto tempo, gira intorno a questo male e si interroga sulla sua natura. In La nona porta lo confronta attraverso la rocambolesca indagine di un detective di libri occulti, che pensa all’esistenza di Satana come qualcosa da interpretare, un gioco enigmistico, una faccenda ermeneutica. E in quella sorta di specchio retrospettivo sulla prima fase del suo cinema annulla l’idea che sia possibile comprenderlo davvero, risolverlo una volta per tutte: il male non è una metafora, semplicemente esiste, è nel mondo, è accaduto. Bisogna allora ripensarlo come un evento storico, senza metaforici schermi di protezione. Bisogna cambiare domanda quindi, non più “come metto in scena la Storia come Male” ma “come metto in scena il Male come Storia?”. Il pianista è la risposta di questo regista sopravvissuto da bambino allo sterminio: ecco la Storia, la mia storia, il mio male.
È la Shoah, il trauma del 900, e questa volta bussa alla porta con un bombardamento. All’inizio sembra qualcosa di passeggero, una fase, una serie di ordini urbanistici. Le date (che compaiono per la prima volta in questo cinema sempre astratto dal tempo) segnano però con precisione funerea l’incedere delle leggi antisemite, dall’esclusione pubblica al contenimento nel ghetto, dalla deportazione al campo di concentramento. Nessun controluce, nessuna ombreggiatura metafisica questa volta, solo il fatto nudo e crudo - ripreso in continuità di campo, in piena luce trasparente: un anziano disabile buttato dalla finestra, poveri affamati costretti a mangiare sull’asfalto, bambini uccisi per strada con le gambe spezzate e le teste bucate, uomini fucilati per gioco.
Per mettere in scena l’evento storico del male, Polanski sceglie il punto di vista di Wladyslaw, giovane pianista risparmiato dallo sterminio, un po’ per talento, un po’ per fortuna. Separato dalla famiglia deportata, l’uomo trova salvezza nello stretto perimetro degli appartamenti preparati di nascosto dai ribelli. Il dolore indicibile è ancora una volta circoscritto lì, tra quattro mura dentro cui bisogna stare in silenzio, per non farsi sentire dal sadismo dei vicini e dalle armi dei militari.
Ma questa volta il dramma non è più intrapsichico e le stanze non sono quelle tutte mentali di una psiche danneggiata, bensì quelle di un paese distrutto dal conflitto armato. La vertigine psicologica individuale, per la prima volta in questo cinema, si aggancia all’universale non attraverso l’astrazione ma attraverso la ricognizione storica, non con il grottesco assurdista ma con la puntualità classica – basta un nitido movimento di macchina verso l’alto a inquadrare il minuscolo corpo di Wladyslaw mentre si perde tra le macerie sconfinate di Varsavia per dire della catastrofica dispersione prodotta dalla Storia.
Questo nitore di sguardo, questa classicità formale, nasconde una convinzione morale, una presa di consapevolezza salda oltre ogni forma ideologica, ogni partigianeria – qualcosa di simile alla rarefazione teorica delle teodicee: il male non solo esiste perché è un evento storico, ma esiste perché in quanto tale si ripete, anche quando i conflitti sono formalmente conclusi.
Che per Polanski la progressione storica non sia che una tempesta fatta di rovine senza riscatto, lo si capisce d’altronde nel finale dedicato alla ritorsione contro il generale nazista imprigionato dai soldati russi, ma soprattutto dal volto del pianista morente tra le stanze semi distrutte.
Il suo corpo appare come una versione rattrappita dell’Angelus Novus di Klee, per come lo intendeva Benjamin: gli occhi spalancati e rivolti al passato, la bocca sformata dalla fame, le ali non più distese ma accartocciate da un forte freddo che alla fine lo spinge al futuro. Dove magari c’è di nuovo la musica, ma non per forza il ricordo.
Il film
Il pianista
Drammatico - Francia/Gran Bretagna 2002 - durata 148’
Titolo originale: The Pianist
Regia: Roman Polanski
Con Adrien Brody, Thomas Kretschmann, Emilia Fox, Ed Stoppard
Al cinema: Uscita in Italia il 25/10/2002
in streaming: su Apple TV Google Play Movies Rakuten TV Timvision Amazon Video
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