Al ‘principio’ della strada per Madison County c’è una vecchia cassetta per le lettere. In lontananza un’auto avanza fino a una casa isolata nel cuore di un paesaggio solivo. La semplicità e la quiete del piano impongono al film un sentimento di mesta armonia. A quell’indirizzo, una vecchia signora è morta e ha chiesto che le sue ceneri venissero sparse sul ponte coperto di Madison Road. Francesca Johnson non vuole ‘riposare’ accanto al marito nella tomba di famiglia. I figli sbrigano le formalità di successione e apprendono sorpresi le sue ultime volontà.
Il figlio, Michael, le trova assurde e si domanda addirittura se la cremazione sia cristiana, la figlia, Caroline, più inquieta e meno edipica, comincia a interrogarsi su quella ‘clausola’. La fine della storia è già scritta, non resta che dipanare il filo aprendo una cassapanca e i diari che contiene.
Flashback, trent’anni prima, nel 1965 e nella stessa casa vivono una donna, suo marito e i suoi due figli. Francesca armeggia in cucina ascoltando la Callas e la sua “Norma”. I suoi cari si accomodano rumorosamente per la colazione, lei li osserva amorevolmente e rassegnata a non essere ricambiata. Sospira e guarda fuori dalla finestra, forse sogna nuovi orizzonti, forse qualcosa o qualcuno che la risvegli.
I suoi cari intanto hanno la testa altrove e il naso nelle loro tazze, dove mescolano i pensieri coi fiocchi di mais. Sono in partenza per una fiera, Francesca resta a casa, ci resterà per quattro giorni, sola e quasi sollevata da quella solitudine. Ma poi una vettura arriva, come all’inizio del film e un uomo ne discende, riconoscibile sotto i capelli grigi ancora prima che la macchina da presa lo inquadri.
Qualsiasi film diriga o interpreti, Clint Eastwood sembra sbarcare sempre d’altrove. Un altrove che non vediamo e non vedremo mai, e che potrebbe essere ovunque o da nessuna parte. I ponti di Madison County rafforzano l’immaterialità del suo personaggio. Nei suoi film precedenti, appare quando un desiderio sufficiente gli permette di esistere e di emergere dal passato. Risponde alla chiamata di una fanciulla in ambasce e poi sfuma, ma le tracce del suo passaggio restano ancora tangibili. Qui, stravolge una vita ma del suo ‘dimorare’ non rimane nulla. Nessuno lo ha visto passare e la vita continuerà come al solito eppure nulla sarà più come prima. Utilizzando il suo stesso mito e spingendolo verso la pura virtualità, Eastwood reinventa un genere provato dalla pesantezza delle produzioni correnti. Senza avere l’aria di toccarlo, svolge perfettamente il suo ruolo di ponte tra noi e la struttura del melodramma di un tempo, un melodramma rurale servito da una regia classica a un pubblico moderno.
Francesca, casalinga dell’Iowa di origini italiane, non è mai andata oltre i confini del suo giardino, Robert Kincaid, fotografo del “National Geographic”, è stato ovunque. Niente fa pensare che Francesca e Robert si incontreranno, non la sociologia almeno. Quello che avviene lungo la strada per Madison appartiene all’ordine della casualità. Lui, appassionato di viaggi e libertà, incontra lei, madre e moglie sottomessa alla realtà. Lui si è perso e ha bisogno di un’indicazione, non trova la strada per il ponte Roseman e Francesca gliela illustra vivacemente ma poi decide che è più facile salire in macchina con quell’estraneo così familiare, imbarcarsi verso quel luogo che lui non sa trovare e che simboleggia il processo di svelamento dell’identità latente di Francesca, il passaggio da uno stato all’altro. Lei lo invita per un tè e quello che doveva essere l’incrocio effimero di due traiettorie si trasforma in un incontro.
Per Eastwood il mondo si dispiega nel confronto e nello sguardo dell’altro, bisogna essere almeno in due per ‘fare un mondo’. Serve un luogo, un momento, un uomo e una donna, nient’altro. Il resto lo farà la messa in scena. Quattro giorni per una vita e centotrentaquattro minuti di film. Per risolvere l’equazione Clint Eastwood sospende il tempo, lo congela perché il figlio e la figlia di Francesca possano leggere il diario intimo della madre. Inquieti e intrigati, scoprono il suo passato e il suo segreto, mantenuto fino alla morte nel 1987.
Con una dissolvenza ‘vocale’, la voce di Francesca si sovrappone a quella di sua figlia e assume il racconto che Eastwood dilata fino al punto di rottura senza togliere il ‘drammatico’ al mélo, che alcuni giudicano così imbarazzante, così terrificante. Il regista non ha paura ed è proprio quel disagio e quel terrore che filma di petto. Quattro giorni tra Robert e Francesca, quattro giorni di fusione tra un vagabondo (lui è freelance) e una sradicata (lei è un’emigrata italiana), quattro giorni che conteranno tutta la vita, quattro giorni come una vita: nascita, maturità, morte.
Il principio del flashback dispiega allora la sua potenza funebre: pur stregati da quella passione spettacolare, registriamo nel cassetto della memoria spettatoriale che l’eroina è morta col suo eroe e che la loro breve relazione è sfumata nella rinuncia. Ma gli amanti iscriveranno il loro amore in quei simboli di immutabilità. Luoghi di passaggio, i ponti di Madison County diventano il cuore del loro incontro, gli eterni depositari della disperazione della separazione. Due vite interrotte mettono radici in quello scenario unico: Robert gli consacrerà il suo saggio e Francesca chiederà di ‘giacerci’.
Eastwood si accampa nel cimitero del cinema americano, ma lungi dal rinnegarlo, lo illumina, ci indugia e ci prospera. È un lucido bivacco che impressiona e da cui deriva una fatale malinconia, un’ombra che si allunga su tutti i suoi film, è il crepuscolo che li rode, il fantasma che li abita. I ponti di Madison County non fa eccezione, non sfugge alle tenebre. Il cuore pulsante del film è il lavoro del lutto. Il suo perfetto contrappunto sono le canzoni vellutate di Johnny Hartman, il crooner preferito di Clint Eastwood, un doloroso incrocio tra Nat King Cole e Sinatra. Sentirlo cantare I See Your Face Before Me conferisce ai protagonisti una presenza quasi sussurrata.
Il ‘metodo’ Eastwood, che lo rende l’ultimo dei grandi ‘classici’, fa il resto, concentrando l’attenzione sui personaggi e sugli attori. Qualunque genere pratichi, l’approccio resta rigorosamente lo stesso, mettersi completamente al loro servizio, lasciare che siano le loro azioni e i loro percorsi psicologici a decidere la direzione.
La dilatazione del tempo in I ponti di Madison County è la stessa dei suoi western o dei suoi thriller e dimostra una volta di più la dimensione registica acquisita, una sobrietà espressiva e recitativa scambiata a lungo per ruvidità. Al contrario, quell’economia di mezzi si rivela contagiosa al punto che un’attrice ‘d’effetto’ come Meryl Streep finisce per dominarsi e offrire una composizione di commovente rigore. Dissipando l’intensità del ruolo, costantemente controllato ma sorprendentemente libero e in perfetto accordo con le esitazioni, le esaltazioni fugaci e le insicurezze di una donna intelligente ma prigioniera della logica che ha volontariamente imposto alla sua vita, l’attrice trova una rosa di gesti, di sguardi, di parole fragili che ricamano un pudore prodigioso.
Di fronte a lei, Clint Eastwood ritrova lo ‘straniero solitario’ e sostituisce la Colt con l’apparecchio fotografico. I suoi sessantasei anni contribuiscono a iscriverlo in un’epoca anteriore a quella dello svolgimento dell’intrigo. Come se venisse da un altro tempo, da un altro cinema, quello di cui si è fatto servitore discreto regolando sovente i conti col suo Paese, quell’America piccola, bianca e benpensante, incapace di guardare più lontano del proprio campo di frumento. In I ponti di Madison County, l’attore preferisce il calore dei club jazz dove le coppie clandestine possono andare senza il timore di essere riconosciute perché in sala sono gli unici bianchi. Con una sola scena, mostra la segregazione con più forza di un lungo discorso.
Ma c’è di più, c’è ancora nell’autore-attore la capacità di rallentare il tempo per darne ‘quanto basta’ a Francesca e Robert per amarsi. La mano di Francesca si posa come un uccello sulla spalla di Robert e sappiamo che i desideri del corpo prolungheranno presto gli slanci del cuore. Concentrato in una casa, dentro una camera, il film lascia il mondo fuori mentre Eastwood racchiude tutto l’amore in una sola sequenza.
Una sequenza muta e mirabilmente girata e montata in cui Francesca scorge Robert sotto la pioggia battente. Il marito è tornato e il suo amante si è congedato, è troppo rispettoso per chiederle di seguirlo e seguire la passione che da sola potrebbe giustificare la sua esistenza. Seduta nell’auto del consorte osserva al semaforo il furgone di Robert e la sua sagoma inquieta dietro il parabrezza appannato. Il semaforo è rosso ma diventa crudelmente verde, Robert non parte, la freccia posteriore del furgone inizia a lampeggiare, la mano di Francesca stringe la maniglia della portiera, la vuole spalancare ma l’insofferenza del marito la risveglia col suono del clacson, la trattiene mentre quel lampeggiamento ostinato la brucia come il fuoco, la tortura.
Francesca continua quella lotta interiore, Robert continua a non partire, è un momento di eternità. Clint Eastwood ha osato filmare il desiderio in soggettiva. Tra rivoluzione e repressione, c’è soltanto il movimento delle passioni e lo spazio compatto che delimita, uno spazio come una canzone d’amore che se ne frega del mondo intero.
Del bestseller sciropposo di Robert James Waller, Eastwood conserva soltanto una manciata di elementi, rifacendo tutto a suo piacimento. Da un pick-up che spunta dal nulla, introduzione preferita dei suoi eroi, alle gite clandestine dei due amanti in un jazz club (la sua musica preferita, suonata da una comunità ai margini che lui ama ed esalta), il suo stile investe la sceneggiatura.
Risplendente di maturità, aggiunge nuove prospettive al romanzo, scivola dentro e fuori dalla macchina da presa (nel film è un fotografo) e si confronta con una donna che mette in discussione le sue certezze. Francesca ha una voce chiara, è lei a raccontare la storia. E lui aderisce al suo corpo sobrio e desiderabile, stretto tra responsabilità e rivelazione di un’identità che risorge al suo contatto. Dopo Breezy, che sembra anticipare il pudore sensuale di I ponti di Madison County - un superbo William Holden cedeva a un amore insolente e lasciava vincere la primavera - Clint Eastwood sacrifica la passione di due amanti sull’altare di un melodramma autunnale, sperimentando nello stesso movimento i momenti sospesi della felicità e la prospettiva di un dolore persistente.
Il film
I ponti di Madison County
Mélo - USA 1995 - durata 135’
Titolo originale: The Bridges of Madison County
Regia: Clint Eastwood
Con Meryl Streep, Clint Eastwood, Annie Corley, Victor Slezak
in TV: 24/11/2024 - Sky Cinema Romance - Ore 23.00
in streaming: su Now TV Sky Go Apple TV Google Play Movies Rakuten TV Timvision Amazon Video
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