Un uomo attende davanti a un cinema. I suoi occhi scorrono sulle locandine di alcuni film. Tutt’intorno, nel brulicante centro di Tokyo, schermi luminosi controllano e dirigono il trafficato incedere delle persone, indaffarate verso altre direzioni, impegnati in altri sguardi.
L’uomo rimane fermo, fuori dal flusso metropolitano, e sorride in pace. Quando riconosce il film che gli è stato consigliato, con moto entusiasta fa un passo avanti, dichiara di essere da solo e compra un biglietto intero.
Finisce così Paprika, l’ultimo film di Satoshi Kon: con un taglio netto, un brusco stacco, un nero senza compromesso, che segna un limite, individua un confine, dichiara un punto di non ritorno. L’ultimo movimento del detective Konakawa, l’uomo alla ricerca del titolo giusto, è negato alla vista; il suo passaggio dentro alla sala è troncato sul nascere. In nessun altro momento il film ha dato l’impressione di interrompere il movimento, anzi, si è costruito proprio all’opposto, scena dopo scena, come un attraversamento senza soluzione di continuità tra spazi e dimensioni sempre differenti, tra sonno e veglia, sogno e coscienza, realtà e finzione, lucidità e allucinazione, certezza e dubbio.
Alla maniera di un lungo inseguimento a perdifiato, che inizia proprio con la rincorsa di Konakawa per catturare l’assassino del suo caso irrisolto in un circo, in una giungla, su un treno, a un concerto e in un corridoio senza via d’uscita, secondo una logica solo a posteriori rivelata come onirica; per proseguire all’interno di sogni altrui, quelli infantili e megalomani degli scienziati Tokita e Himuro, intenzionati a vivere sogni condivisi sempre più grandi e quindi sempre più pericolosamente vicini alla dimensione della realtà; e infine terminare nella deflagrazione di tutti i sogni sotto il peso del desiderio del Presidente, un maniaco pronto a fagocitare il mondo pur di assicurarsi il controllo. Un inseguimento nella dimensione di un’illusione sempre più indistinguibile, quindi, ma in realtà nell’unica forma realista del nostro contemporaneo postmoderno e cioè in una rete ipertestuale senza più cornici o contenitori, espansa ed atmosferica come un luogo di transito fatto da convergenze senza direzione, definizione o identificazione.
Qualcosa di ancora più puntuale rispetto anche agli altri film del regista: non un corridoio fatto da infiniti specchi, centrati sul traumatico punto cieco al cuore dello spettacolo (come in Perfect Blue), non un percorso a ritroso nell’archeologia di una psiche individuale e nazionale (come in Millennium Actress), non una catabasi sociale in cerca della possibilità di un riscatto fuori tempo massimo (come in Tokyo Godfathers); bensì un puzzle senza disegno di riferimento, un non luogo innervato dal flusso dati dell’informazione, un campo di forze fatto da punti senza apparente relazione in cui la realtà si sgretola, l’identità si sfalda, gli schemi razionali evaporano.
Guidato dalla dottoressa Chiba e del suo doppio virtuale Paprika, avatar capace di attraversare i sogni grazie a una macchina costruita per penetrare l’inconscio, Konakawa solo alla fine comprende che per evadere da questa rete deve cambiare il modo in cui guarda. Attento all’asse di ripresa, gli dicono i clown sulla scena del crimine, riduci l’esposizione, adotta il panfocus, accetta la nuova grammatica, strappa l’inquadratura, salta dall’altro lato e tieni l’intero schermo a fuoco. Lo puoi fare, sei un regista in fondo, ricordi? Non più dimentico del proprio passato cinematografico, abbandonato dopo giovanili fallimenti, il detective inizia a guardare diversamente, risolve l’omicidio ed esce dal sogno nei sogni. Infine, torna davanti al cinema. Perché il regista fa finire proprio lì il suo movimento? Si tratta di una dichiarazione teorica: il cinema, a differenza degli altri medium, non è qualcosa che si attraversa, è piuttosto un luogo conclusivo; non è un’altra soglia intermedia, ma un punto di svolta decisivo; non è un inizio, ma una fine. È una madre patria, e cioè il posto da dove si viene e dove si ritorna. O meglio, dove ritornano le immagini.
Perché se è vero che, dalla rivoluzione binaria in poi, le immagini di sintesi, quelle della rete digitale, hanno iniziato a proliferare con forza endemica, disgregando il principio di individuazione della realtà e frantumando la possibilità di ottenere un’identità attraverso il confronto il mondo - anzi, moltiplicando a dismisura multiversale le possibilità identitarie di ognuno, fino ad annullarle in un gioco sempre a somma zero -, è anche vero che il cinema non ha mai rinunciato al faticoso lavoro del loro senso e della loro rimediazione. Non ha mai smesso, cioè, di raccogliere le diverse e multiformi immagini del mondo, le nuove strutture e i nuovi paradigmi audiovisivi in una dialettica integrale, capace di risuturare le ferite del contemporaneo, contrastando il potere in controllo della contradditoria e schizofrenica superficie del presente attraverso abissali forme di elaborazione.
Intercettare tutti i tipi di immagini fuori dal cinema, e condurle al luogo cinema, tornare al luogo cinema, è da sempre per Satoshi Kon una misura di sopravvivenza per abitare il contemporaneo, oltre che un discorso personale, una necessità esistenziale (i titoli delle locandine sono quelli dei suoi film). È questo ciò che scopre anche Konakawa, detective-regista del tutto simile a un alter ego, dopo aver attraversato mille mondi e mille forme, cambiando maschera e connotato, corpo e convinzione, genere e linguaggio: al cinema i sogni non iniziano, finiscono. Perché cominciano le responsabilità.
Il film
Paprika
Animazione - Giappone 2006 - durata 90’
Titolo originale: Paprika
Regia: Satoshi Kon
Al cinema: Uscita in Italia il 15/06/2007
in streaming: su Apple TV Google Play Movies Amazon Video
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