Un minuto e quaranta secondi, titoli lunghi per una serie eppure non ‘skippiamo intro’ perché le immagini e la musica che aprono ogni episodio di Succession esercitano su di noi una potente fascinazione. Mélange di “home movie” vintage, di grattacieli e schermi, di giornali e rotatorie, di cascata sinfonica, Mozart e Beethoven contro percussioni elettroniche, l’opening credits di Succession fa eco all’essenza stessa della serie, una storia vecchia come il mondo: una famiglia che si fa a pezzi per il potere. E il dominio, in cui lo esercitano e lo perdono, è presto detto, un’evidenza davanti ai nostri occhi: l’impero dei media.
I titoli di testa sono una porta d’accesso che entra nel vivo di una famiglia di ultraricchi, una dinastia di dannati intrappolati nei loro uffici di cristallo newyorkesi. Nel corso delle stagioni i titoli di apertura sono stati impercettibilmente aggiornati, piccoli slittamenti per lo stesso identico finale: Logan Roy, il patriarca, una combo tra King Lear e Rupert Murdoch, siede a tavola, di spalle e di fronte ai suoi quattro figli. È a casa sua trent’anni prima, un fotogramma dopo è nel suo ufficio di Manhattan in faccia agli stessi figli e alla stessa domanda: chi gli succederà? Ma non si tratta soltanto di una semplice querelle tra vecchio e nuovo, di un conflitto generazionale tra il padre e suoi eredi. Non si tratta nemmeno di una crisi familiare o di leadership, il punto in Succession è l’impossibile trasmissione di potere dentro la difficile transizione da un’epoca all’altra, da un mondo a un altro.
Perché Succession racconta la fine di un regno: quello di un magnate vecchio stile che ha costruito Waystar Royco, un impero mediatico e finanziario, divorando le filiali concorrenti (stampa, canali di notizie, studios di Hollywood, crociere, parchi, intrattenimento). Colpito da un ictus, il patriarca ha dovuto organizzare la sua successione. Negli anni ha messo a dura prova i suoi figli ma nessuno di loro sembra avere la ricetta del successo, la stoffa per il successo. Il verdetto paterno è lapidario, i suoi figli sono tutti dei perdenti.
Nato in Scozia e diventato ricchissimo in America, il dramma funziona per Logan Roy come una sitcom, niente può toccarlo, nemmeno la pandemia, esclusa dall’intrigo per conservare quell’idea che i Roy vivano al di fuori della realtà che vorrebbero controllare. I pezzi della scacchiera si muovono ma senza conseguenze reali per loro e tutto ricomincia da capo. La quarta stagione ribadisce lo status quo di Succession, la lotta intrafamiliare per il controllo della Waystar Royco. Perché Logan, vecchio leone in declino, è ferocemente aggrappato al trono a cui bramano i suoi quattro figli, indecisi tra uccidere il padre o impressionarlo. Difendere il suo capitale o venderlo a un gigante svedese di nuove tecnologie GoJo, piuttosto che cederlo a loro. Se i metodi educativi di Logan sono un’impresa di demolizione perpetua, la sua prole ha un talento naturale per l’autodistruzione, mentre cerca la sua ragione d’essere e la grazia paterna per esistere. Vederli sbranarsi è il principale piacere di questo racconto (a)morale insieme ai suoi personaggi impossibili da amare. Serve tempo per ‘adottare’ questi bambini viziati che avevamo lasciato alla fine della terza stagione in un’esplosione di fratellanza ‘interessata’ tra tocchi esitanti e gesti di consolazione.
Come i suoi titoli, la serie disegna l’immagine frattale di un’esplosione che è allo stesso tempo politica, sociale, culturale e psicologica. Si tratta di un oggetto simbolico esploso e difficile da definire. I litigi familiari non sono che frammenti, osservati con la lente d’ingrandimento: prese di potere fallite, acquisizioni ostili, trame sordide, tradimenti, trappole fraterne, infedeltà. Succession è l’apologia della slealtà. La babele del discredito e dei disonorati. Si è parlato molto dei suoi riferimenti ai grandi classici, del suo respiro tragico e dei suoi ammiccamenti al “Re Lear” shakespeariano ma le influenze che attraversano la serie non sono solo letterarie.
Ritorniamo alla sua alba, il compositore, Nicholas Britell si è ispirato a Mozart e a Schubert per i semplici accordi di pianoforte che catturano fin dal primo istante, poi intervengono i violini, una melodia beethoveniana, e soprattutto un grande e lento ritmo di percussioni elettroniche che non guasterebbero in un brano hip-hop. La storia dei Roy è musicalmente servita, si svolge ai nostri giorni ma è senza tempo, tragica come un classico. La classicità del dramma dice meglio l’immersione in un mondo sull’orlo del collasso. Succession riflette il tramonto dell’era di Fox News, travolta dall’avvento della “tecnologia” e del suo sciame di social network. Insomma “chi guarderà ancora la televisione tra dieci anni?”
Logan Roy, come Rupert Murdoch, appartiene all’era politico-mediatica che va da George W. Bush a Donald Trump. Ha costruito un impero mediatico globale sul passaggio dalla carta al cavo, dai giornali ai canali di informazione. Se il mondo del padre sta mostrando i suoi limiti, i suoi figli hanno i piedi ben piantati in quello digitale. Non credono più nella televisione e vedono l’alba di una nuova era, quella delle app e dei social network come TikTok, il giovane Roman ne anticipa addirittura il successo.
Del resto Succession deve molto allo stile tragi-comico dell’era Trump, una sorta di carnevalata postmoderna in cui il monopolio della comunicazione rende possibile il regno del “vale tutto”: razzismo, xenofobia, fascismo... Il canale ATN, la Fox News della serie, è la replica esatta del suo modello, la cui sola strategia è catturare il pubblico seminando il panico. Partecipano entrambe allo stesso regime, quello dell’eccesso e della trasgressione. Il potere del buffone che emerge dappertutto e nello stesso tempo: da Johnson a Bolsonaro, da Trump a Grillo, Succession è il loro teatro.
In levare e poi oscuro, epico, profondo, pungente, il tema musicale insinua ogni episodio ma è nei titoli che si dispiega pienamente, scivolando sulle immagini che raccontano la storia di questa famiglia a pezzi, a disagio davanti all’obiettivo, che punta o fugge. Come la verità i figli non sanno dove stare, sono svalutati, soggetti al calcolo e alla fluidità dei prezzi, imposti dal padre. Le immagini scorrono con le note e guardiamo dei bambini giocare a tennis, sciare, accompagnare un pony o cavalcare un elefante in una vasta tenuta che ha tutte le caratteristiche di una casa infestata da un fantasma. E l’ombra del padre, oscurante e minacciosa, non è mai troppo lontana dalla sua discendenza dannata. La musica di Nicholas Britell ibrida classica ed elettronica, gettando un ponte tra le epoche, dopotutto non c’è molta differenza tra il maniero di ieri e i grattacieli di oggi, tra il controllo della propria famiglia e il controllo del mondo.
Ma nell’alba di Succession non ci sono soltanto i semi del suo sviluppo, mettiamo insieme i frammenti di risposta alle domande che ci tormentano dalla prima stagione: perché i personaggi sono così malvagi? Cosa nel loro passato li ha resi così miserabili e vili? In quell’album di immagini ingiallite, che svaniscono non appena proviamo ad assimilarle, ognuno di noi ha il suo ‘preferito’ e resta puntualmente sbalordito davanti al mostro che è diventato. Come ha fatto la piccola Shiv, che si prende amorevolmente cura del suo pony a diventare la donna arrogante che conosciamo? Il gioco dei perché vale anche per i suoi fratellini che cercano in fuori campo un accenno del padre, un segno d’amore. Custodito da un esercito di camerieri in livrea, il loro mondo è una miscela di ricchezza, solitudine e abuso. Del resto l’umiliazione è un rituale familiare servito ogni mattina con la colazione. Dunque cosa ha massacrato i bambini Roy? Troppi soldi? Poco amore?
Auscultiamo i titoli, mettiamo insieme i ricordi in super 8, proviamo a ricostruire un’infanzia cresciuta a colpi di dollari. Convochiamo Freud, Marx e pure Shakespeare per la follia mortifera del potere ma Jesse Armstrong sta già ridendo dei nostri sforzi, perché la citazione ‘shakespeariana’ preferita da Mr. Logan Roy, che non ha mai letto altro che dei contratti, è: “Prendete quei cazzo di soldi...”. La violenza del capitalismo in Succession si esprime senza belletto e totale indifferenza per il resto dell’umanità. È lontana anni luce dal culto entusiasta del dollaro di Dynasty o dal glamour sovraprezzo di Emily in Paris. È piuttosto l’affresco post-apocalittico di The Walking Dead, la sopravvivenza individuale a tutti i costi, la scomparsa delle istituzioni, l’abbandono dell’educazione... l’ultraliberismo è già l’apocalisse.
La serie HBO non registra solo la transizione da una forma di comunicazione a un’altra, ma un cambiamento etico e sociale, il passaggio da una forma di governo a un’altra, da una condizione politica a un’altra, da un regime di verità a quello della post-verità. Nel passaggio, Armstrong inventa il linguaggio del non detto, un flusso ininterrotto di parole (e di zoom intempestivi) volgari e caotiche. La trasmissione impossibile si esprime con un linguaggio intransitivo, immerso nel calderone ribollente della scatologia e della pornografia. La metafora chiave della serie è l’orgia. È tutta una questione di posizioni sessuali, di violenza sessuale, di leggendarie inculate. Una trattativa commerciale assume sempre la forma di un abuso, commesso sovente contro i propri cari. Perché Succession spinge la spirale di discredito che aleggia sul mondo occidentale nei recessi più reconditi di uno psicodramma familiare: quattro bambini in fila che si affrontano sul mercato dell’amore paterno. In posa davanti agli spettatori non riescono a comunicare tra loro, hanno perso la fiducia nel linguaggio. Alla loro sinistra, il padre esce di scena lasciandoli eredi di una elusa domanda di riconoscimento.
La serie tv
Succession
Drammatico - USA 2018 - durata 59’
Titolo originale: Succession
Creato da: Jesse Armstrong
Con Brian Cox, Iván Amaro Bullón, Karen Goeller, Jesse Armstrong, Gina Jun, Nicholas Braun
in streaming: su Sky Go Now TV Microsoft Store
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