Il pittore Ernesto Picciafuoco (Sergio Castellitto) è appena scampato a un duello, in realtà subito interrotto dall’aristocratico offeso che lo avevo reclamato, rispondendo al sorriso sardonico di Ernesto con il fasto e la forma di antiche tradizioni da rinverdire. Eppure il pittore si presenta, vuole combattere, e il nobile, senza dire una parola, dopo appena due colpi di fioretto, si ritira e se ne va sdegnato.
Ernesto non crede in questa forma antiquata di risoluzione delle controversie, nondimeno non fugge, affronta la sfida e insiste perché si compia. Allo stesso modo non crede in Dio ma non vuole che le sue siano vuote parole, vuole che chi gli sta intorno ne abbia contezza, che sia il figlio, “costretto” dalla moglie a seguire l’ora di religione a scuola, o l’anaffettiva e ipocrita famiglia che vorrebbe la canonizzazione di sua madre, così da poter godere dei benefici di tale prestigio.
Torna a casa e fa il suo lavoro: illustra un libro per bambini utilizzando il computer e anima le immagini, di modo che la realtà rappresentata cambi forma, le statue si muovano e la civiltà crolli lasciando spazio agli alberi, alla natura.
Per Marco Bellocchio, forse l’autore più radicalmente ateo del cinema italiano, la religione è un costrutto sociale, innaturale, che opprime l’individuo. Ernesto quindi si alza di scatto e insegue la (presunta) insegnante di religione che si nasconde in casa, la trova, la bacia appassionatamente ed esce dal portone con lei.
Poi accompagna il figlio a scuola e in quel preciso momento in Vaticano il peloso arcivescovo, che voleva strappargli una testimonianza sulla santità di sua madre, guida solennemente la processione della famiglia Picciafuoco in udienza dal Papa. Ci sono tutti: gli aridi e opportunisti fratelli, le zie ignoranti, la zia scalatrice sociale, l’amico di famiglia confuso, le nipotine. Mancano solo Ernesto e suo figlio. È riuscito quindi alla fine a sottrarsi a quella che più volte nel corso del film ha definito “una buffonata”. E ha protetto il figlio dalla ipocrisia, dall’incoerenza.
Tutta la famiglia Picciafuoco desidera fuggire dalla realtà, vuole piegare il mondo allo storytelling (come nell’agghiacciante scena del colloquio col fratello schizofrenico), e anche Ernesto è malato di “dover-essere”. C’è però una differenza: quando il figlio gli chiede cos’è la coerenza risponde semplicemente: “è quando uno fa quello che dice”. Il coraggio dell’ateismo è quindi un’istanza della coerenza da opporre alla “forma” degli altri, e non per superiorità morale. Il pittore bacia l’insegnante, “si fa l’amante” (come suggerito dalla zia), dimostra a se stesso e agli altri di essere imperfetto, un peccatore anch’egli. Ma non la utilizza come scusa per abbracciare l’ipocrisia, e mantiene un’isola di coerenza privata a cui approdare. E così alla fine, nell’ultima inquadratura, sorride.
“Il sorriso di mia madre” è il sottotitolo del film, quella madre “stupida”, mai molto capita, forse mai neanche amata, dalla quale ha preso un sorriso che poco prima descrive come un velo di arroganza da estirpare, causa di tanti problemi. Invece ora Ernesto sorride, accetta i suoi difetti, accoglie il suo spigoloso carattere, ma rimane fedele ai suoi principi. Come il fratello matricida che nonostante gli insegnamenti impartiti continua a opporre alle insidie mondane l’arma della bestemmia.
Il film
L'ora di religione
Drammatico - Italia 2002 - durata 102’
Regia: Marco Bellocchio
Con Sergio Castellitto, Jacqueline Lustig, Chiara Conti, Gigio Alberti
Al cinema: Uscita in Italia il 19/04/2002
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