Da qualche tempo Renaissance è un’aria familiare. Familiare a chi ha divorato The White Lotus e a chi beatamente la ignora. Il tema della serie corale di Mike White è diventato in due anni un fenomeno virale, un vero e proprio cult, remixato dai The Killers per aprire i loro concerti, impiegato sui social network, suonato su Spotify o passato in loop nelle sale da concerto e sul dance floor. Ma è pulsando sul piccolo schermo e sul motivo decorativo dei titoli di The White Lotus che la composizione di Cristobal Tapia de Veer procura un brivido di inquietudine.
L’immagine tropicale di uccelli e scimmie, predatori e fiori, piante e onde, si adatta perfettamente agli elementi sonori di Renaissance, piantando il décor della prima stagione e suggerendo le traiettorie dei personaggi negli episodi a venire.
La sigla esotica di The White Lotus segna la nascita di un mantra ipnotico ed è la perfetta illustrazione di un racconto che semina un sentimento di disagio e fa pensare a una sorta di sacrificio umano, del resto la serie è costruita sulla suspense che circonda l’identità di una vittima, la costruzione a flashback e lo spleen in cui precipitano gli ospiti estivi. Un pugno di americani borderline e capricciosi che cercano riparo e relax alle Hawaii ma finiscono per condividere una forma di solitudine assoluta di fronte a immensità diverse: la morte, l’orizzonte, l’oceano, la famiglia...
I titoli di testa scorrono su una carta da parati coloniale che ha la caratteristica dei libri di fiabe per bambini, è un portale verso un altro mondo. Un mondo colonizzato che comincia improvvisamente a muoversi stimolato dalla musica, l’impressione è che qualcosa sia sul punto di esplodere o qualcuno sul punto di morire.
Arpa e flauti tribali sposano l’elettronica, due voci femminili allacciate inseguono il respiro affannato del compositore che suona il flauto fino a ‘esalare’. Il ritmo, lento e sincopato, fiuta qualcosa dietro ai disegni, qualcosa sta per accadere, qualcosa accade, i motivi ornamentali cominciano d’un tratto a muoversi e a guastarsi come un frutto.
Le note annunciano un’esperienza ansiogena mentre i dettagli si staccano dal fondo, diventano più grandi: pesci in trappola, meduse giganti, onde grandi che incombono sulla fragilità umana, tempesta all’orizzonte e lotus bianco, quello del titolo e dell’Odissea che “produce oblio del passato e desiderio di non partirsi più di là”.
Là dove approdano i turisti ultraricchi di Mike White.
È un paradiso tropicale ma intravediamo l’inferno. Coquillage, capitalismo bianco, nevrosi e mercificazione della natura, tutto è già consumato nell’opening credits, tutto punta la decadenza occidentale e avanza verso la catastrofe.
In The White Lotus la natura è una tela di fondo, un’entità reificata dal mondo bianco che rende ancora più visibile la sua ansia e la sua paura di perdere i propri privilegi. In un momento in cui il cambiamento climatico è in atto, la serie si fa lente di ingrandimento sulle strutture che hanno contribuito al disastro: la colonizzazione, il capitalismo, l’individualismo, la whiteness, concetto astratto che struttura tutte le relazioni politiche, sociali ed economiche. Tuttavia per Mike White le cose come le persone sono sempre più complicate di così. Sotto la superficie piacevolmente sarcastica, The White Lotus è una serie profondamente umanistica, che trova una prospettiva nuova, un misto di dolcezza e di vorace crudeltà, per dire la frattura sociale.
Un quarto di secolo fa a bordo del Titanic di James Cameron tutto era più chiaro. L’alta società occupava confortevolmente le cabine di lusso, i poveri si accalcavano in terza classe. Questa divisione aveva un corollario psicologico e morale altrettanto limpido. I cattivi appartenevano alla grande borghesia materialista e senz’anima, quella che impediva a Rose (Kate Winslet) di vivere come voleva e le imponeva un fidanzato scelto secondo criteri economici. Al contrario, vicino alla stiva si affollava una comunità più umana in cui Jack (Leonardo DiCaprio) sognava a stomaco vuoto il suo avvenire d’artista.
Prima che un iceberg decida altrimenti, sarà lui a restituire a Rose la voglia di vivere. Quando il naufragio avviene le diseguaglianze sociali si fanno ancora più rivoltanti, i ricchi hanno il diritto alle scialuppe, i poveri sono condannati ad annegare. Col transatlantico affonda il vecchio mondo, troppo ingiusto per continuare, ma la catastrofe libera almeno Rose dai dettami della sua classe e ci permette di credere a un tempo nuovo.
Invano, perché il divario economico nel secolo successivo non smetterà di crescere.
Il problema è così allarmante che il cinema (Snowpiercer, Parasite, Triangle of Sadness) e la fiction televisiva se ne occupano regolarmente piazzandolo in primo piano e non più come sfondo a una storia d’amore.
Bong Joon-ho con Parasite sovverte e rende più complessa la visione ancora troppo candida di Snowpiercer, un treno lanciato ad alta velocità intorno al mondo coi suoi ricchi accomodati nei vagoni di testa e i poveri stipati in coda. La visione della società in Parasite diventa invece verticale, e di quella verticalità l’autore farà il principio del suo film, i privilegiati vivono in lussuose ville in collina, i meno abbienti in un seminterrato senza luce. La geografia iniziale si complica quando la famiglia disagiata infiltra quella benestante, usurpando progressivamente le posizioni di domestici e tutori. Gli scambi e la circolazione tra le due classi sociali prendono pieghe inaspettate: gli odori del sottofondo sono ripugnanti e insieme afrodisiaci per i dominanti. L’idillio tra la figlia ricca e il figlio povero ci fa credere, per un breve momento, a una convivenza possibile. Tuttavia, nella lotta di classe, la violenza finisce per ‘uccidere’, nessuno dei due campi è risparmiato ma soltanto i dominati saranno rispediti nell’oscurità da cui provengono.
Il film di Ruben Östlund si presenta invece come una pista da bowling, i personaggi sono birilli da abbattere, uno a uno. The White Lotus è il rimedio ideale alla sfrenata misantropia di Triangle of Sadness, perché diversamente dal film applica il filtro dell’amore. Stabilito lo stesso obiettivo (la descrizione satirica dell’egocentrismo autoritario dei ricchi), apparecchiata la stessa condizione (l’isolamento vacanziero di personaggi fortunati e potenti), fissato lo stesso soggetto (la violenza di classe dissimulata dal servilismo di mercato), le due opere optano per mezzi diversi. Mike White sa essere sottile piuttosto che caricaturale, corrosivo invece che nichilista, elegante invece che grossolano.
Sulle note ansiogene di un incantesimo esotico, orchestra un’inarrestabile escalation di ostilità tra il personale di un hotel e i suoi clienti, tutti americani, tutti sgradevoli, tutti ossessionati da loro stessi. Una serie di ritratti contemporanei che avanzano richieste a un personale sfruttato, sovraccarico e pericolosamente vicino al punto di rottura. Ma poi si prende tutto il tempo per tirare fili intimi e comicamente assurdi, per complicare il quadro con colpi di scena che non evitano la catastrofe ma non negano nemmeno la speranza di alzarci al mattino con un fondo di desiderio e un’altra storia da raccontarci.
I turisti sprezzanti di Mike White sono lui, siamo noi. L’autore non ne fa mai dei bersagli facili, non è mai moralizzatore ma cercatore d’oro, di faglie e di dosi di umanità anche nel più irritante dei suoi personaggi. Diversamente da Östlund, che li disprezza, White ci entusiasma soprattutto per la qualità del suo sguardo su di loro. Progressivamente cominciamo a interessarci ai ricchi e a quelli meno ricchi, agli americani in vacanza e agli hawaiani al lavoro, scoprendo il talento di White per le sfumature psicologiche, per l’arte di bilanciare empatia e scherno, il richiamo del caos e tutte quelle linee di forza che attraversano il campo contemporaneo (crisi della mascolinità, circolazione di corpi e denaro, meccanismi di imitazione sociale...).
Semina bombe a orologeria (una borsa da spiaggia smarrita, una suite nuziale già occupata, un’urna funeraria ingombrante) sotto la sabbia per smascherare la violenza del gioco sociale e interrogare senza tabù il concetto controverso di “privilegio bianco”. In pieno sole il racconto avanza verso la tragedia annunciata, dalla sigla, dalla musica, dalle immagini sinistre (frutti in decomposizione e pesci morenti tra le alghe) che spostano il peso verso qualcosa di perturbante e decisamente fatale. Non siamo propriamente in una commedia e ‘si sente’ mentre i titoli scorrono e associano i nomi degli attori a piante, frutti, animali. Ciascun elemento, una scimmia o un camaleonte, rivela un carattere o l’evoluzione di un personaggio che come tutto il mondo ha le sue ragioni.
La serie tv
The White Lotus
Drammatico - USA 2021 - durata 58’
Titolo originale: The White Lotus
Creato da: Mike White
Con Murray Bartlett, Christie Volkmer, Charlotte Le Bon, Aubrey Plaza, Paolo Camilli, Mike White
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