Queens, distretto di New York, 1980. Il preadolescente Paul Graff è nipote di ebrei ucraini emigrati negli Usa, e pallido e rosso proprio come il regista James Gray (come a dire che C’era una volta a New York una Little Odessa, attenti: l’autofiction è in corso). Frequenta poco diligentemente la scuola pubblica, è appassionato di missili, vorrebbe fare l’artista, sogna la NASA e Kandinskij, uno spazio libero, da conquistare e reinventare, ed è insofferente verso la propria famiglia, che non capisce cosa sia, come stia: troppo povera per esaudire i suoi desideri, sufficientemente abbiente per farlo sentire privilegiato, con un dolore troppo autoritario nel passato a infastidire la sua vitale voglia di presente.
Lo sorprendono a provare uno spinello nei bagni con Johnny, il compagno nero, orfano, nullatenente, discriminato dal professore (anch’egli d’origine ebraica): per garantirgli un futuro, il nonno (Anthony Hopkins), che sa cosa è il pregiudizio, lo iscrive come il fratello maggiore alla scuola privata, fondata su successo, classismo e xenofobia da Fred Trump, padre di Donald ed elettore di Reagan (che in tv, in un’intervista col predicatore Jim Bakker dice: «Se lasciamo che l’America sia un’altra Sodoma e Gomorra, forse potremmo essere la generazione che vedrà l’Armageddon». «Che coglione», commentano i Graff).
Nel reflusso d’amarcord del cinema d’autore di oggi (da PTA a Sorrentino, da Linklater a Branagh, fino a Spielberg), Gray gira un coming of age maturo, non nostalgico e autoassolutorio, ma piano, nitido, dolce, impietoso, fuori tempo, capace come sempre di dare forma, calibrando antropologia ed empatia con misura miracolosa, alle pressioni sociali delle radici e del tempo che cambia, alle morali e alle contingenze che strutturano, struggono, separano i suoi personaggi. Crescere - per Gray/Graff - è fare i conti con la responsabilità. Ma non in modo lineare, progressivo, didascalicamente progressista, non raggiungendo un obiettivo simbolico, ma lavorando dentro, sotto la superficie, nelle cose non dette, nel fallimento dell’ideale.
È questo, l’Armageddon Time. Principio e fine sono esattamente all’opposto di quelli di un normale coming of age, un paradosso: si apre con Paul che confessa una marachella per evitare sia l’intera classe a pagarne le conseguenze, si chiude con Paul che accetta sia una persona meno privilegiata, a pagare per lui. La storia di un giovane che si scopre codardo, capendo di cosa è fatto il reale, come gira la Storia, come è strutturata l’America. Mentre Fred Trump parla, Paul se ne va, non ascolta. La macchina da presa di Gray - in un finale pianissimo, per nulla catartico, come sempre di sintesi raffinata, semplicemente e puramente cinematografica - fa zoom out dalle stanze di casa, di scuola. Non dai volti delle persone. Perché non sono tanto gli individui, a fare l’America. Sono le istituzioni. L’architettura. La scenografia perfettamente ricostruita. Uno spazio che non è libero, da conquistare, da reinventare. Ma a cui si può forse resistere, rispondere, sottrarsi, sopravvivere.
Il film
Armageddon Time - Il tempo dell'apocalisse
Drammatico - Brasile, USA 2021 - durata 114’
Titolo originale: Armageddon Time
Regia: James Gray
Con Jeremy Strong, Anne Hathaway, Anthony Hopkins, Michael Banks Repeta, Jaylin Webb, Marcia Jean Kurtz
Al cinema: Uscita in Italia il 23/03/2023
in streaming: su Apple TV Google Play Movies Rakuten TV Amazon Video Netflix Netflix basic with Ads Mediaset Infinity
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