Punto zero non comincia. Punto zero finisce. Non diversamente da quella controcultura a stelle e strisce di cui è il prodotto - amaramente schiantatasi contro il ventre molle del proprio stesso sogno prima ancora d’esser riuscita a dargli corpo -, il road movie di Richard C. Sarafian inizia dal suo finale, arrestandosi appena un attimo prima della fine, e si conclude con il suo inizio: a volerlo disegnare, l’incipit sarebbe un cerchio che non chiude, una linea avvolta su se stessa che preconizza senza ancora compierlo il destino già scritto del protagonista.
Le prime immagini stabiliscono lo status quo. Siamo a Cisco, Utah (la scena dovrebbe avere luogo nella curiosamente omonima località californiana, ma si tratta di un’eccezione in un film girato pressoché interamente negli stessi posti in cui si ambienta). Sulle laconiche note snocciolate da una chitarra folk la macchina da presa perlustra lo spazio. Il movimento - una lenta, grave panoramica da destra verso sinistra - accentua la fissità desolata del paesaggio, indugiando sui relitti che punteggiano l’orizzonte terminale del desertico West americano e suggerendo, come per correlazione oggettiva, l’immobilismo di una nazione già collassata dentro i propri stessi simboli (una pompa di benzina, la testa di un camion abbandonato in mezzo a un campo, una bandiera che sventola svogliatamente...).
Quando la rotazione interseca la strada senza fine che taglia a metà il quadro, la cinepresa si ferma e una sirena annuncia l’arrivo di un poliziotto in sella alla sua moto: lo scenario della crisi si apre così, con quel suono, diegetico, a sovrastare acuto e persistente la sonnolenta malinconia della colonna sonora.
Un attimo dopo un’inquadratura all’altezza dell’asfalto (l’“interramento” del punto di vista è un espediente cui Sarafian ricorrerà spesso: adoperato sovente per restituire in tutta la sua velocità la corsa dei veicoli, suggerisce qui al contrario l’avanzata lenta, impacciata eppure inesorabile del potere costituito) mostra l’incedere di due cingolati. Si posizioneranno ai margini della strada, poi la chiuderanno del tutto, in uno sbarramento dalla valenza più che mai simbolica.
Da dietro le finestre uomini col volto scavato dal sole e irrinunciabili cappelli da cowboy sulla testa osservano la scena. Non ci è ancora dato saperlo – o forse sì? - ma quello che guardano, impassibili, mummificati, è l’ipnotico spettacolo della morte. «Arriva anche la televisione, dev’essere una cosa importante».
Ritorna la colonna sonora, solo per un momento però, perché a schiacciarla stavolta giunge assordante il rombo di un elicottero. Ha «localizzato il ricercato» e dall’alto del suo punto di vista aereo lo filma (!).
Finalmente l’anomalia, la nota dissonante, l’acme del climax tensivo sin qui preparato: procedendo in direzione significativamente contraria a quella del velivolo - non poteva essere altrimenti -, una Dodge Challanger R/T bianca che in men che non si dica assurgerà al rango del mito (vedi alla voce: Grindhouse - A prova di morte) taglia l’inquadratura a tutta velocità.
Al volante lui, Kowalski (Barry Newman), «il cavaliere solitario», «l’ultimo grande eroe americano» nel quale identificarsi. Kowalski il pilota inarrestabile - «nessuno chiede quando si fermerà, ma chi riuscirà a fermarlo» - che ingolla benzedrine per schiacciare più forte il pedale del suo cupio dissolvi, per raggiungere più in fretta il suo punto di fuga. Kowalski la sentina senza fondo in cui precipitano tutti gli spettri e la violenza del paese, il negativo fotografico di un Sogno formato cartolina.
Le mastodontiche pale metalliche dei cingolati chiudono la strada da un lato, le auto-civetta della polizia la ostruiscono dall’altra. «Il ricercato è fermo, non può sfuggire». Parcheggiato in mezzo al deserto, tra una carcassa metallica e l’altra, Kowalski scende dalla macchina, sorride (alla morte) e prende una decisione.
L’incipit terminale del film finisce qui, con il fermoimmagine della Dodge Challenger bianca che incrocia il presagio funesto di un’automobile nera mentre è lanciata a tavoletta verso Cisco. Il regista riavvolge il nastro ai due giorni precedenti e il racconto, pur scarnificato fino all’osso, comincia davvero.
Il cuore e il punto dell’epopea disgraziata di Kowalski però sono già qui. Stanno tutti in quel freezeframe che congela per sempre l’attimo prima dello schianto, negli interrogativi insoluti - che sarà di lui? E perché, questa fuga? - che si rifiutano di mettere la parola “fine” a sigillo della folle corsa del pilota. Torneranno soprattutto nella pellicola incendiata di Strada a doppia corsia di Monte Hellman, “riscrittura” - questa sì, al punto zero - di quell’Easy Rider, uscito nelle sale americane appena due anni prima eppure già così lontano, che Sarafian omaggia nel suo film.
Il film
Punto zero
Drammatico - USA 1971 - durata 107’
Titolo originale: Vanishing Point
Regia: Richard C. Sarafian
Con Barry Newman, Cleavon Little, Victoria Medlin, Timothy Scott
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