Il cinema di Eugène Green è fatto solo da due dimensioni: la superficie delle cose e la fonte di illuminazione che dà loro vita. Le immagini di questo autodidatta di scuola bressoniana, appassionato di Pascal ed esordiente all’età di cinquant’anni sono così pacate e discrete e così ridotte ai minimi termini che, oltre all’accensione prodotta sugli oggetti dal passaggio della luce in un istante di pacifica intensità sensoriale, non sembrano rivendicare altro.
Spesso i suoi film si aprono su piccole porzioni di mondo, nature morte illuminate dalla luce naturale, come uno specchio d’acqua agitato da un timido baluginio, un banale fazzoletto di terra rischiarata da un raggio di sole, un angolo d’architettura svelato da una carezza luminosa. Anche quando in scena ci sono dei corpi il discorso non cambia grafia, perché sui volti la luce argomenta con lo stesso registro: gioca con il chiaroscuro ma non è mai psicologica, non cerca il profondo delle intenzioni, non fa dietrologie del pensiero, anzi, alterna l’umbratile al luminoso per mettere in risalto le depressioni e gli sbalzi, il levigato e il ruvido, la piega e il vuoto della superficie della cosa e del connotato, e così dare la sensazione di una presenza.
Nella sequenza di apertura de La Sapienza (film cardine di una carriera pressoché inedita in Italia) questa ricerca della schiettezza materica è resa attraverso l’uso di piani fissi illuminati al naturale e tagli di montaggio netti, che sbalzano gli oggetti in avanti: il piano del lago conchiuso da una cornice montuosa è sostituito prima da un carrello laterale che raccoglie da destra a sinistra una balconata e poi dal dettaglio di una scultura, che anticipa gli interni di una chiesa barocca non specificata.
La sequenza però si interrompe all’improvviso, compaiono i titoli e inizia il film vero e proprio, con un carrello simmetricamente opposto al precedente, che in un movimento da sinistra a destra presenta un panorama molto diverso, uno scenario urbano ingrigito e senza luce, abbruttito da una confusione di linee e prospettive disordinate.
È il contesto in cui avviene la premiazione dell’architetto Alexander Schmidt, famoso per “aver fatto sorgere città dai campi, torri nei cieli, ponti in lande desolate, inventando spazi di lavoro per l’industria e tetti per i bisognosi”; mentre la voce over dell’uomo descrive il proprio operato mosso da un materialismo rigoroso, che ha sempre rifuggito lo spirituale per rispondere a ideali di umanesimo secolare, scorrono le immagini della desolazione urbana.
Il discorso di Green è semplice, e potrebbe sembrare anche facilmente manicheo se non fosse mosso da un’urgenza teorica inattaccabile: il cinema contemporaneo è questa desolazione, la stessa desolazione esistenziale di Schmidt, professionista che dopo aver “trascurato la luce” si è ridotto alla coerenza funzionalistica e all’automatismo del senso. Per intercettare la lezione del regista francese non servono le scene successive (una riproposizione delle dinamiche di coppia di Viaggio in Italia), basta mettere in relazione la resa scenica della materia senza luce con quella illuminata del prologo.
La differenza tra le immagini precedenti ai titoli e quelle successive non è la presenza o meno della semplice materia, ma proprio la differenza qualitativa nella rappresentazione formale della materia attraverso l’immagine; per Green l’immagine cinematografica è entrata in crisi formale e si è per così dire imbruttita non perché è diventata troppo materialista ma perché, abbandonando l’ultima grande lezione su come rappresentare l’intensità della presenza materica attraverso le immagini, lo è diventata attraverso un cattivo materialismo e cioè un materialismo non barocco.
È nel programma estetico barocco, fondato sull’ossimorico incontro tra una meccanica materialista e una fede spiritualista, che la realtà (meta)fisica splendeva di presenza grazie alla modulazione della luce, usata come catalizzatore, connettore, costruttore di spazio. Il cinema ha dimenticato di essere una macchina ad alta precisione pensata per trasmettere la realtà fisica perché, come Schmidt, si è dimenticato di usare la luce.
Per questo Green apre il suo film con un a priori luminoso appartenente al barocco più intuitivo e rigoroso, la Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza del Borromini: è solo riattraversando la lezione di quell’architettura, già nel Seicento più cinematografica di molto cinema a venire, che il protagonista risolve la propria alienazione e la materia ritrova espressione, tornando a essere luce spazializzata.
Il film
La Sapienza
Sperimentale - Italia, Francia 2014 - durata 87’
Regia: Eugène Green
Con Fabrizio Rongione, Christelle Prot, Arianna Nastro, Ludovico Succio
Al cinema: Uscita in Italia il 24/11/2014
in streaming: su Amazon Prime Video Amazon Video Timvision
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