Si spengono le luci, sullo schermo caratteri svolazzanti vergano la scritta «Senso». L’occhio della cinepresa si apre sul palcoscenico della Fenice di Venezia, in scena c’è Il trovatore di Giuseppe Verdi. Mentre scorrono i titoli di testa, la macchina da presa ostenta il suo punto di vista ieratico e un po’ severo, da “teatro filmato”. I cantanti duettano ingessati, come crocifissi alla scenografia sfarzosa che li incornicia. Perché tutti quei pizzi, quei merletti, quelle suppellettili?
Luchino Visconti ha tradito la causa neorealista? E perché quell’immobilismo, quell’inquadratura ostinatamente fissa, per di più su un’opera lirica arcinota? È il vezzo d’un autore che, prima ancora che cineasta, è stato regista teatrale? Mentre ci arrovelliamo su questi interrogativi, lo sguardo comincia a vagare per il teatro abbracciando prima la platea, poi i primi ordini di palchi, poi ancora la galleria.
Si ritorna infine sul palcoscenico, ma questa volta il tenore, che intanto si è spostato sul proscenio, è una figurina vista dall’alto in basso. Il punto di vista non è più quello neutro e impassibile di un narratore onnisciente: siamo diventati spettatori anche noi, siamo lì, proprio lì, alla Fenice di Venezia. E pure Il trovatore non è più lo stesso: non è più parola morta e imbalsamata, ma musica viva, vivissima!
La melodia incalza, tra gli spettatori monta un’eccitazione inarrestabile, la chiamata alle armi che i cantanti intonano dal palcoscenico si rivolge direttamente a chi sta in galleria: d’altronde - ce l’ha spiegato una didascalia in apertura - siamo alla vigilia della Terza guerra d’indipendenza, e in quei tempi si diceva «W Verdi» non a caso, ma per occultare nel plauso al compositore un motto patriottico, «W Vittorio Emanuele Re Di Italia». Nel frattempo Visconti si è trasformato persino in un maestro della suspance: in un crescendo costante, mentre il tenore arringa il pubblico a spada sguainata, gli italiani si passano di mano in mano coccarde e volantini tricolori da far svolazzare sulle teste dello stato maggiore austriaco che sonnecchia in platea.
Facciamo finalmente conoscenza con i protagonisti della nostra storia: la bella contessa Livia Serpieri, il pusillanime Franz Mahler e l’eroico Ussoni, che lo sfida a duello. È fatta dunque, il melodramma s’è preso tutto lo schermo, non esiste più distinzione tra spalti e palcoscenico.
A nulla valgono le suppliche della contessa, che convoca Mahler per persuaderlo a non raccogliere il guanto di sfida lanciato dal patriota Ussoni: «Non mi piace quando il melodramma dilaga nella vita vera, cerchiamo di comportarci in maniera ragionevole», dice lei. Ma è una preghiera vana, perché il melodramma è, per Visconti, la lingua naturale del Risorgimento, non diversamente da quanto il siciliano non fosse, in La terra trema, «la lingua dei poveri». Incastonare in un incipit una paraboletta, o la chiave per decrittare tutto il film che verrà, dev’essere per un regista una tentazione irresistibile (come è irresistibile, per il critico in cerca di scorciatoie interpretative, la tentazione di fare di quell’incipit la misura dell’opera intera): in Senso non è un vezzo, però, quest’inizio così plateale. Visconti sta firmando il suo manifesto: questa storia - ci dice - non potrebbe essere raccontata altrimenti.
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