Una ventina di secondi dopo i titoli di testa, una dissolvenza incrociata collega un’inquadratura subacquea volta verso la terraferma, dove si scorgono alcuni nativi Powhatan, e una in movimento a pelo d’acqua, in un punto imprecisato dell’oceano (si intravedono, però, alcune rive sullo sfondo).

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The New World
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Alzandosi, la cinepresa inquadra le tre navi inglesi che di lì a poco approderanno in Virginia. È il 1607: lo si evince da una didascalia apparsa al comparire delle imbarcazioni, e non prima. È il vecchio mondo, infatti, a esportare il tempo nel nuovo. Come esporterà l’individuo: se il ribaldo John Smith spunta, la prima volta in cui lo vediamo, dal nero della sua cella, monade senza nulla intorno fino a dopo lo sbarco, Pocahontas non è mai separata dal suo ambiente, e dalla sua comunità.

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Prima ancora del primo contatto ottico tra i due mondi, a collegarli è dunque, attraverso il montaggio, l’acqua. È dall’acqua, del resto, che emerge la vita. Vale sia per i premoderni Powhatan, sia per gli europei che hanno appena iniziato la grande avventura della modernità. Non si ritorna all’origine, perché non la si è mai abbandonata: basta questo a sconfessare qualunque “ritorno alla natura” – che poi sarebbe la fantasia definitiva di qualsiasi forma di colonialismo. Come in quel remake non dichiarato che sarà, pochi anni dopo, Avatar di James Cameron, appena si consuma il rapporto amoroso tra John Smith e Pocahontas, pur avvicinatisi con le migliori delle intenzioni, parte la macchina militare e distrugge tutto.

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Il ritorno all’origine è un’illusione che è proprio il magico, estatico montaggio dell’heideggeriano Malick a demistificare, alternando i nativi e i conquistatori che si guardano, da lontano, prima di incontrarsi. Gli uni sono meravigliati dagli altri, e viceversa. Il piano è il medesimo. Non possiamo guardare l’origine senza esserne simultaneamente guardati. Non torniamo all’origine senza che sia lei a volgersi verso di noi, dischiudendosi. È lei a tenere il pallino, non noi. Per cui se tentiamo di dominare, sviluppare, pianificare il dischiudersi dell’origine, finisce male. Finisce col colonialismo prima, e poi con quel naturale prolungamento che furono i campi di concentramento. Wagner (il prologo de L’oro del Reno è, in questo incipit, una delle più entusiasmanti associazioni musica-immagini dell’intera storia del cinema) è lì a ricordarcelo.

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Se i campi sono già idealmente compresi nella storia di Pocahontas è perché il dischiudersi dell’origine è la fine allo stesso modo in cui è l’inizio. È quando si cerca di dare seguito all’inizio, ignorando che esso è anche una fine, che cominciano i guai. Ed è di nuovo il montaggio malickiano a mostrarcelo. Ogni nuova inquadratura è il dischiudersi di un nuovo mondo, perché capovolge la precedente imperniando il reciproco contrasto su assi imprevedibili.

La cinepresa segue, da dietro, i Powhatan che corrono verso la riva. Stacco: la cinepresa è improvvisamente ferma, e inquadra uno di loro con un fischietto, di profilo; non sappiamo più dove siamo, ma vediamo gli altri che continuano a correre, sullo sfondo come tra lui e la cinepresa. Stacco: il movimento di macchina riprende, stavolta laterale, fino a stringere su Pocahontas (dov’era prima di ora?), stavolta di spalle. Poiché guardante e guardato sono simultanei prodotti del dischiudersi dell’origine, il campo-controcampo è impensabile: solo la successiva inquadratura, sempre su lei di spalle ma fissa, da più lontano, ci mostra le barche in lontananza che sta guardando Pocahontas. E solo dopo, di profilo, vediamo il suo sguardo.

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E così via, da un inizio che è già una fine a un altro inizio che è già una fine, saltellando tra un’angolazione discontinua e l’altra. A ogni momento non segue il momento successivo, ma un altro tempo: per questo, manca il momento dell’attracco. Non vediamo la transizione dall’acqua alla terra, perché il tempo non si sviluppa in sequenza, ma esce continuamente fuori di sé. Di colpo, un inglese è già sulla terra, e lega a un albero la corda che servirà a “parcheggiare” le navi. Ciò che dovrebbe dare una forma al tempo (il montaggio) finisce per annullarlo in una continua sospensione estatica.

Autore

Marco Grosoli

Assistant Professor alla Habib University di Karachi (Pakistan). Collabora con varie riviste di cinema (tra cui spietati.it); tra le sue pubblicazioni "Armonie contro il giorno. Il cinema di Béla Tarr" (Bébert, 2014) e "Eric Rohmer's Film Theory" (Amsterdam University Press, 2004).

Il film

locandina The New World

The New World

Drammatico - USA 2005 - durata 150’

Titolo originale: The New World

Regia: Terrence Malick

Con Colin Farrell, Christian Bale, Q'Orianka Kilcher, Jesse Borrego, Ben Chaplin, Christopher Plummer

Al cinema: Uscita in Italia il 13/01/2006

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