Alex Garland è un autore che si può annoverare nella scuola del “contagio”. Come tutti gli esponenti di questo tipo di cinema, capitanato da Ridley Scott (vero teorico della duplicazione dell’immagine cinematografica), anche Garland è, prima di tutto, un contagiato, un autore costruitosi sulle immagini e sugli immaginari degli altri. Prendendo spunto dai suoi colleghi - M. Night Shyamalan, Steven Soderbergh e Jonathan Glazer, su tutti – ha scelto di fare un cinema con geometrie minimali e formule sperimentali, nel senso scientifico del termine, laboratoriali, per mettere in risalto le linee di forza del contemporaneo, giocarci, manipolarle allo sfinimento. Nella sua produzione, spesso intermediale e quindi già di per sé aperta a un’idea di diffusione ed espansione endemica delle immagini oltre ogni confine, limite e cornice (tra letteratura, cinema, televisione, videogiochi), ce ne sono in particolare sempre due.

Alicia Vikander
Ex Machina (2014) Alicia Vikander

La prima è quella che proprio autori come Shyamalan e Glazer hanno perfezionato negli anni: la linea di chiusura, claustrale, della camera d’eco, che stiamo imparando a conoscere sempre di più nella narrazione post pandemica, tra post verità, algoritmi induttivi e scrolling da brain rot. Il cinema di Garland, come in quello dei colleghi che guardano al microscopio spazi chiusi su sé stessi, non a caso è tutto sigillato, con case che diventano prigioni high tech, nazioni trasformate in campi di guerra civile, spazi aperti inglobati da zone di annientamento metafisico, universi giunti al termine dell’equilibrio entropico. La seconda linea è, senza sorpresa, quella esponenziale di un’immagine che non può uscire, e quindi si sdoppia, si duplica, gemmando in una replica incontrollata, aumentando di volume a dismisura: un’infezione metastatica - ora biologica (l’allegorico virus della rabbia in 28 giorni dopo), ora psicologica (la follia teologica in Sunshine), ora politica (il populismo di Civil War), ora ideologica (l’utopia della Silicon Valley in Ex Machina e Devs) – che è sintomo visibile di un trauma invisibile.

locandina
Men (2022) locandina

Men è un po’ il pamphlet di questo cinema epidemico. Ambientato in una campagna inglese delimitata da rovine post-industriali (e quindi in uno spazio-tempo folk, abbandonato da una società che ha scelto un’altra direzione, un nuovo progresso), il film si apre su uno shock - quello di Harper (Jessie Buckley), che ha assistito al suicido del marito dopo che quest’ultimo, maschio violento, l’ha incolpata della sua decisione di togliersi la vita – e ne ricerca l’origine attraverso immagini replicanti, che si snodano e si propagano in un percorso allucinatorio. In un’eco, fenomeno acustico per il quale un suono, riflettendosi contro un ostacolo, torna a essere udito nel punto in cui è stato emesso, nettamente separato dal suono che lo ha provocato e tanto più distintamente avvertito quanto più l’ostacolo è distante, che genera mostri, letteralmente. Troppo programmatico? Forse. O forse, come scrive Pier Maria Bocchi in So cosa hai fatto. Scenari, pratiche, e sentimenti dell’horror moderno, programmatico al punto giusto, secondo le nuove tendenze, le nuove contaminazioni, in questo caso quelle dell’arte contemporanea e dell’audiovisivo performativo.

Jessie Buckley
Men (2022) Jessie Buckley

Il film di Garland assomiglia infatti all’installazione di una black box, in cui si può entrare e uscire a piacimento senza perdersi molto. Come in un loop ripetitivo in cui la progressione drammaturgica – quella di una narrazione apocalittica che, giocando con l’iconografia cristiana, prima trasforma la natura edenica (iniettata da un verde di fluorescenza tossica che ricorda quello inventato da Alfred Hitchcock e Robert Burks) in un teatro originario di violenza e colpa, e poi assalta il corpo femminile come una vittima sacrificale, capro espiatorio che “mangia la mela” -, lascia il passo alla ripetizione, al verbatim, per mettere in forma una struttura di pensiero e di comunicazione non lineare, anzi, circolare, ratificata.

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Men

Quale? Quella della manosfera, o androsfera, la comunità informatica dei “celibi involontari”, rappresentanti di un separatismo maschile che con le sue infinite arborescenze criptate, fatte di subform, sottosezioni di sottosezioni di sottosezioni di un forum popolato da soli maschi (“Men”), ha creato un nuovo linguaggio. Proprio questa forma di pensiero duplicato e centripeto è riprodotta dal finale, quasi un film nel film che, attraverso una gag ripetitiva estenuante, riscatta (prima di The Substance) il didascalismo della forma in un’argomentazione per assurdo (anche tragicomica) per mostrare plasticamente la rabbia incel.

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Geoffrey, l’agente immobiliare, inizia a dare vita a un nuovo sé, e poi ancora, e ancora, e ancora, producendo doppi di sé sempre più mostruosi. Corpi flaccidi e cascanti, partoriti per una partenogenesi tipologica, – un altro ribaltamento dell’iconografia paleocristiana, costruita sulla duplicazione delle immagini apollinee e dionisiache, lentamente trasformate in simboli cristici – che per “ossessione d’amore” procedono in un’invasione domestica (qui Garland sembra riprendere l’home invasion finale dell’Aronofsky madre!), un assalto al focolare domestico di Harper.

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I doppioni nati da Geoffrey sono però imperfetti, cadono sotto lo sguardo sempre più severo della donna, si sgonfiano, hanno una caviglia rotta, una mano tranciata a metà fino al gomito, le ossa frantumate, il ventre cavo, il volto ormai bagnato dal sangue. Corrispondono sempre di più all’immagine traumatica vista dalla protagonista, quando suo marito James, è caduto dall’ultimo piano, schiantandosi a terra.

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Ecco perché, quando a comparire dalle viscere esauste di Geoffrey, è infine proprio James, suo marito, la protagonista accoglie con pacifico disinteresse un orrore che non fa più paura: nel momento in cui Harper si confronta direttamente con il senso di colpa per la morte del marito, quest’ultimo smette di essere una realtà minacciosa.

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Men

La domanda esasperata – “Che cosa vuoi da me James?” - libera Harper dall’immagine replicante del trauma, non più infezione in libera circolazione nella camera d’eco contemporanea ma singola parola spogliata di ogni esoterismo – “Amore” risponde il fantasma di James inebetito -, messaggio letterale, confessione patetica che sbiadisce alla luce del sole. Mentre un equilibrio di colore sull’immagine annuncia una nuova maternità: quella dell’amica della protagonista, che arriva, fuori tempo massimo, e quella della natura, tornata a un apparente stato conciliante (ora che Harper tiene in mano una piantina).

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Autore

Leonardo Strano

Leonardo Strano si è laureato in Filosofia dell’Esperienza Estetica con una tesi sull’inconscio ottico in Walter Benjamin e Jacques Tati (il suo regista preferito). Mentre prosegue gli studi in Teoria dell’immagine scrive per Filmidee, Pointblank e DinamoPress.

Il film

locandina Men

Men

Horror - Gran Bretagna 2022 - durata 100’

Titolo originale: Men

Regia: Alex Garland

Con Jessie Buckley, Rory Kinnear, Paapa Essiedu, Gayle Rankin, Zak Rothera-Oxley

Al cinema: Uscita in Italia il 25/08/2022

in streaming: su Prime Video Apple TV Google Play Movies Amazon Video Rakuten TV