Nuvole e campi di grano. La terra di Aleksandr Dovženko (1930, in piena era stalinista) comincia così, con immagini che suscitano un sacro timore. Quasi una liturgia. La musica incalzante, drammatica, che accompagnava i titoli di testa, è diventata un coro celestiale.
Nella prima inquadratura la terra è schiacciata da un cielo percorso da nuvole minacciose. Nella seconda è la terra a prendere il sopravvento, o meglio, il vento che la percorre, il movimento del grano, che sembra la pelliccia di un gigantesco essere vivente. La terra respira! L’orizzonte si alza ancora, il grano è un mare che ondeggia, danza, canta, il cielo è ridotto a uno spicchio di grigio, fino a quando le spighe riempiono lo schermo.
Anche il coro “scende sulla terra”, si fa più materico, mentre appare un enorme girasole, con accanto il volto di una ragazza, coronata di nuvole. La bellezza di lei è come in disparte, l’umano sta dietro, accanto, anzi sparisce nell’inquadratura successiva, che non riesce a contenere il fiore, la sua evidenza. Non è semplicemente un farcelo vedere meglio – ci sarebbe bisogno di una cornice, ci vorrebbe dell’aria intorno – è come se lo dovessimo guardare per la prima volta.
E poi mele e foglie, sempre più vicine e grandi, in stacchi e dissolvenze incrociate, per finire in un movimento più morbido, uno sguardo che diventa contemplazione, che ci fa scivolare dentro la visione. C’è un frutto che sembra quasi un pianeta, la Terra intera, ma anche qualcosa di organico, un corpo, una testa. Ma poi torna ad essere “solo” un frutto, la soggettiva di un uomo sdraiato sull’erba, insieme alle mele cadute dagli alberi.
Qui si passa dalla contemplazione alla narrazione. Un uomo anziano sta per morire, serenamente, e noi rimaniamo sconcertati dall’incomprensibile sorriso di chi vive la morte per quello che è: natura. «Semën, stai morendo?», gli chiede un uomo seduto accanto a lui, pensieroso, addolorato. «Sì, Pëtr», risponde l’anziano serafico. Dei bambini stanno giocando lì vicino, quasi si confondono con la terra e i frutti, le luci e le ombre. Il dialogo è surreale nella sua pacatezza.
Semën promette che farà sapere se è finito in paradiso o all’inferno, nel caso fosse possibile, e uno scavalcamento di campo ce lo restituisce accanto a un mucchio di mele, in quella che sembra una soggettiva mancata (dell’amico), visto che in realtà il controcampo è fatto ancora di campi e cielo (“ribaltati” anche loro, con la collina che ora declina verso sinistra).
Il salto visivo sembra aprire un nuovo discorso. Ora si parla dell’aratro e dei buoi con cui Semën ha lavorato per 75 anni: bisognerebbe dargli la “medaglia al valore dei Soviet”! Ma il giovane Vasilij - quello che poi cavalcherà un trattore, il glorioso futuro dell’uomo nuovo - non sembra essere d’accordo. Il vecchio morente, a quel punto, si alza e si mette seduto, quasi a voler ascoltare, e comincia a mangiare una mela. Salvo poi decidere che la discussione non è poi così interessante (cosa sono i Soviet, in effetti, di fronte alla vita e alla morte?): «Va bene, addio, sto morendo», dice alla fine, accompagnato da un coro che torna ad essere vibrante, e si rimette sdraiato con le mani sul petto, adeguandosi all’iconografia tradizionale del trapasso.
Suono di campane (“industriali”, sovietiche), un girasole in primissimo piano, il corpo di Pëtr adagiato sull’erba, dopo un altro scavalcamento di campo.
La terra racconta la collettivizzazione in terra ucraina e il riscatto dei contadini poveri contro i ricchi proprietari, è (anche) mistica della meccanica, un inno futurista al trattore e all’industria alimentare che sfamerà il popolo. Ma l’incipit, quasi religioso (come pure l’epilogo) - in un film che si scaglia contro la religione istituzionalizzata – sembra dire che il socialismo non ha senso se non è radicato nella terra e nelle stagioni (il tempo è circolare), nella saggezza millenaria del (corpo del) popolo, nello stupore e la meraviglia. Il sacro sta nelle cose. E pure nel cinema. Il cui linguaggio (poetico, simbolico, sinestesico) precede e supera il pensiero logico, soprattutto quello irregimentato dall’ideologia. Vaglielo a spiegare a Stalin.
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