Tra il 1986 e il 1991 una serie di cruenti omicidi sconvolse la quiete di Hwaseong, nella provincia sudcoreana di Gyeonggi. Le vittime erano ragazze e donne violentate e uccise, l’identità del serial killer rimaneva ignota, il caso freddo. Solo nel 2019 è stato identificato il colpevole, dunque nel 2003, quando Bong Joon-ho s’ispirò a questo fatto di cronaca nera per il suo secondo lungometraggio, il nome dell’omicida seriale era ancora sconosciuto. Mancava un pezzo, il finale di questa storia vera non era ancora stato scritto, così anche il regista sudcoreano costruiva il suo Memorie di un assassino su un quadro incompleto, su frammenti difettosi, mettendo a tema l’incapacità di afferrare la verità - dopo tutto già il titolo lo preannuncia: la memoria è di per sé fallace, inaffidabile. Infatti, per quanto i due detective di questo thriller-noir guardino da vicino gli indizi, c’è sempre qualcosa che sfugge al loro sguardo - e Bong è beffardamente ironico quando fa dire al protagonista interpretato da Song Kang-ho: «Non può ingannare i miei occhi, io riconosco gli assassini».

Già nell’incipit il regista ragiona sull’atto del vedere e del mettere a fuoco. Il racconto prende avvio il 23 ottobre 1986 e il film si apre su un primo piano di un bimbo che osserva una cavalletta rannicchiato tra le spighe - anche la scena iniziale di Madre (2009) si svolgerà in un campo di grano. Poi il bambino, cauto ma deciso, cattura l’insetto e se lo rigira tra le mani, studiandolo. Vedere e prendere, guardare per afferrare meglio, per capire. In seguito un rumore in lontananza attira l’attenzione del piccolo cacciatore, che si volta e si alza, mentre l’inquadratura si allarga leggermente e la musica inizia a suonare.

Lungo la stradina che costeggia i campi sta arrivando un trattore, il bambino lo guarda a distanza, piega leggermente la testa di lato, come fanno i cani, per mettere a fuoco cosa sta per succedere. La mdp si avvicina al trattore, seguito da un corteo festante di ragazzini. A bordo del mezzo Song Kang-ho fuma una sigaretta scrutando il paesaggio quieto e bucolico attorno a lui.

Quando l’uomo si avvicina, il bimbo nasconde dietro la schiena un barattolo di vetro in cui ha rinchiuso l’insetto. Dopo, il detective si accuccia a lato della strada, lungo il canale di scolo, pronto per analizzare quella che a breve scopriamo essere una scena del crimine. Sotto il tombino, infatti, c’è il corpo seminudo e legato di una giovane donna - un elemento ripugnante che instilla un senso di disagio in mezzo a questo scenario in apparenza sereno.

Qui la camera fa un primo “gioco” di messa a fuoco: all’inizio si vede in primo piano una parte di corpo della ragazza, su cui si è posata una cavalletta; poi il focus si sposta sullo sfondo, sul volto accigliato dell’investigatore. Inoltre, per illuminare quell’antro oscuro, l’uomo utilizza un pezzo di vetro rinvenuto lì attorno e i raggi del sole: non è un fascio di luce diretto a investire il cadavere della vittima, ma un riflesso traballante, rimando di una visione parziale, non definita.

Ecco che già in queste prime battute di Memorie di un assassino guardare è sempre un atto che viene messo in crisi, ostacolato, limitato, sintomo dell’impossibilità di mettere a fuoco - e quindi di capire se stessi e il mondo che circonda i personaggi: l’epoca in cui avviene la storia è quella della dittatura militare -, che si trascina lungo tutto il film, fino al finale che non concede alcuna risoluzione. Infatti la detection gira a vuoto, diventa ossessione (come in Zodiac), il Bene non trionfa, il Male dilaga e il colpevole non viene mai catturato, anzi, quando Song Kang-ho, nella scena conclusiva, torna sul luogo del delitto dopo molti anni, manca il killer per poco, in un’ultima beffa del destino.

Tornando all’opening scene, il Nostro, dopo aver ispezionato il tombino, si rialza e davanti a lui c’è ancora il bimbo con la cavalletta. L’uomo si rivolge al gruppetto di monelli in mezzo al campo: stanno giocando, ignari, con la biancheria intima della ragazza uccisa, ancora un elemento sgradevole, obbrobrioso. E mentre il detective intima ai giovani di lasciare stare gli indumenti-prove e di allontanarsi, il bambino gli fa il verso, lo imita, ripete ogni sua frase, ogni gesto in un grottesco gioco dello specchio.

Alle parole del detective non corrispondono né conseguenze né risposte, solo un’eco che riproduce stupidamente ciò che pronuncia. Sono questi i primi segni di un’indagine cialtrona condotta in modo approssimativo (e con la violenza: gli interrogatori), come lo saranno l’impronta della scarpa schiacciata dalla ruota di un trattore, l’assurda ricostruzione del crimine davanti alle telecamere delle tv, la mancanza di strumenti e tecnologie adatte (il DNA deve essere spedito negli Stati Uniti per essere analizzato).

Ed ecco che, alla fine della sequenza che apre Memorie di un assassino, l’adulto e il bimbo si guardano, campo/controcampo: il detective prova a decifrare il bambino, che però gli risponde facendogli il verso, restituendogli l’espressione ebete e incerta che vede stampata sul volto dell’uomo, come uno specchio deformato che non sa dare alcuna risposta.

Il film
Memorie di un assassino
Thriller - Corea del Sud 2003 - durata 129’
Titolo originale: Salinui chueok
Regia: Joon-ho Bong
Con Kang-ho Song, Kim Sang-kyung, Kim Roeha, Song Jae-ho
Al cinema: Uscita in Italia il 13/02/2020
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Bella questa analisi della prima scena di quello che, secondo me, è il capolavoro di Bong Joon-ho.
Mi hai fatto venire voglia di rivederlo.
Diciamo che una desamina dei primi dieci minuti di film aiuta molto alla comprensione e alla preparazione dell'intero film. Io l'ho visto ieri e ci sono arrivato a capirlo dopo mezz'ora, ma ne è valsa veramente la pena.
Complimenti Giulietta.
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