Chi sei, tu?

Rivisto Luce risfoglio le pagine di Addosso alle immagini di Luc Dardenne, perché è lì la domanda da cui partire: «Dove mettere la mdp?». Cosa far vedere? Cosa celare? «L’essenziale è forse nascondere». Ci sono film che si svelano nel tempo della visione. Luce no. Luce è un film d’immagini mancanti che dobbiamo provare a immaginare e che, dopo, continuano a lavorarci dentro, a erodere persino. Luce non mostra niente di quello che è successo alla protagonista, e se lo fa è per principio; lo stesso che muove la mdp, che le sta addosso tanto da darci l’impressione che l’immagine palpiti, che quel corpo sia lì.

Un corpo solitario, sradicato, nervoso, che sembra non possa mai abitare il paesaggio, esistere in un campo lungo di terra e di cielo; mostrarlo in un’inquadratura larga sarebbe un po’ mentire, farci credere a una riconciliazione tra la donna al centro della storia e la sua vita (solo alla fine accade, in una sorta di riflesso ustorio in cui è costretta a specchiarsi). Di lei non sappiamo nulla, neppure il nome. Non esiste come persona ma unicamente come ruolo sociale: è un’operaia ed è la figlia di un padre detenuto, una figura latitante dalla quale non riesce a liberarsi, a cui si attacca morbosamente, fino a fargli avere, di nascosto, un cellulare.

E quando una voce la chiama accetta di partecipare al gioco delle parti, di recitare una vita che (non) è la sua. Luce è da vedere più volte, perché, dice Dardenne, «vedere più volte lo stesso film può provocare un’esperienza elettiva»: «lui si ricorda di me, nelle sue immagini, nei suoi suoni, tra le immagini e i suoni, non so dove, gli sono rimasto dentro. Poter rimanere nell’altro è essere amati».

Il film