“Se osserviamo la base di un cervello che è stato appena prelevato da un cranio, si può in effetti vedere ben poco del mesencefalo. Tuttavia, come ho dimostrato nella mia lezione della settimana scorsa, se si distaccano delicatamente le parti inferiori dei lobi temporali, si può vedere la parte superiore della radice del cervello. Questa cosiddetta base del cervello è composta dal mesencefalo, da una protuberanza tondeggiante chiamata ponte di Varolio, e da un gambo che si assottiglia verso il basso, chiamato midollo allungato, il quale fuoriesce dal cranio attraverso il foro occipitale, e naturalmente diviene il midollo spinale. Ci sono domande prima che prosegua?”. Frankenstein jr., il nipote del grande barone Victor Von Frankenstein, si rivolge così ai suoi studenti di anatomia.
Il suo discorso è calmo e compassato, una precisa riflessione scientifica sulla differenza tra impulsi nervosi, riflessi e volontari: niente sembra ricordare la follia creativa del suo progenitore. Eppure, ecco sollevarsi dalla platea una domanda: “Ma lei non è...?”. La sala accademica assomiglia alla sala cinematografica, gli studenti a degli spettatori, e la rimostranza è in fondo quella che Mel Brooks riservò a Gene Wilder quando sul set di Mezzogiorno e mezzo di fuoco l’attore propose al regista un nuovo adattamento del romanzo di Mary Shelley: “Non un altro ancora!”. Wilder, inventore del progetto, sceneggiatore e attore principale chiarisce con fermezza attraverso la voce del suo personaggio: “Si pronuncia Frankenstìn!”. Ci tiene insomma a precisare che no, questa volta non è la stessa cosa.
Se il sepolcro della tradizione è stato riaperto, e il testamento di Shelley di nuovo trafugato per cinque mila miglia dalla Transilvania fino alla scrivania degli executive di Hollywood, è per sperimentare gli impulsi riflessi e volontari sì, ma non quelli della paura, bensì del riso. Brooks all’epoca stava elaborando un’immagine riflessiva (una forma di critica satirica en travesti) del linguaggio dello spettacolo e della storia di Hollywood - prima della Storia tutta ,- e per farlo riscriveva le logiche meccaniche e organiche della scena di genere (ricordate le flatulenze anti-machiste dei cowboy nella sua parodia western?), ricostruendo e decostruendo i set come pezzi di un gigantesco puzzle intessuto sul suo stesso corpo di mattatore (un mantello di Arlecchino, un variopinto segno postmoderno avrebbe detto Michel Serres).
Quando Wilder gli presenta l’occasione di rileggere Frankenstein per lui è l’occasione non tanto di ripensare alla leggenda letteraria quanto di innestare degli elettrodi sul genere horror deli anni ’30 hollywoodiano (che nell’arco di quindici anni produsse cinque film sul mostro di Shelley –Frankenstein, La moglie di Frankenstein, Il figlio di Frankenstein e Il terrore di Frankenstein) e trasformarne la carne scenica senza vita in una nuova macchina di stimoli sociopolitici. A differenza della scatola aperta di Mezzogiorno e mezzo di fuoco, che proprio lo stesso anno spalancava l’orizzonte del west sul presente di Los Angeles, Frankenstein Junior è però sigillato in un isomorfismo intransigente, frutto di una carbonatura che non solo produce in copia stilemi e strumenti usati dalla produzione dell’epoca ma costringe Brooks a stare fuori, a bordo scena, rinunciando (su preciso volere di Wilder) agli anacronismi critici e cortocircuiti temporali prodotte dalle sue usuali performance.
Il film funziona comunque come aggiornamento della sua ricerca meta testuale sui linguaggi dell’industria, soprattutto per l’esasperato gioco di alterazione segnica dei cliché, e cioè delle forme prestampate del genere, delle sue espressioni meccaniche. Che vengono sciolte in nuove forme, più elastiche e ambigue: dall’allitterazione dei topoi che diventano gioco linguistico, passando per una concezione organica di tutta la materia scenografica – non è forse il castello un circo girevole, tra passaggi segreti, carrucole e bui corridoi trasformati in un’unica grande gag slapstick –, fino ad arrivare a un finale di scambio liquido che dichiara tutto il senso dell’esperimento.
Sì, perché quando alla fine del film Frederick decide di mostrare al mondo la bontà del suo mostro incompreso, trasferendogli parte della sua intelligenza e rendendolo così civilizzato attraverso un intricato sistema di tubi e ingranaggi, ecco che la coppia Brooks/Wilder trova un modo per collegarsi alla visione originaria di Shelley, pur riscrivendo in senso satirico il pessimismo patetico degli horror hollywoodiani. Nessun castello in fiamme, nessuna morte della creatura isolata dall’odio e dalla paura degli uomini: piuttosto ecco un’inaspettata inversione tra intelligenza e impulso sessuale tra mostro e scienziato.
Nel transfert il mostro acquisisce parola e diventa un imborghesito lettore del Wall Street Journal, del tutto privato dell’appetito sessuale con cui aveva conquistato la seduttiva neo-sposa Elisabeth; lo scienziato chiacchierone invece si ammutolisce, ipnotizzato dagli innocui vocalizzi di Inga, che lo attivano sessualmente. Quello che si scambiano i corpi, e segna per la comunità l’accettazione della creatura, è insomma il linguaggio, e in particolare la retorica politica. Nell’incrocio tra l’illuminismo populista del discorso con cui il mostro gestisce la rabbia della folla e l’abbandono erotico a cui si lascia andare lo scienziato accademico ecco, infatti, che si intravede la critica degli autori a ogni forma di illuminismo razionalista e progressista, presunta depurazione degli istinti e invece semplice catarsi energetica momentanea di impulsi che restano in circolo nella società, pur in forma residuale.
Un’idea, questa, che, ridicolizzando il linguaggio come forma di civilizzazione, mentre appunto si ricollega alla visione godwiniana di Shelley (William Godwin era il padre della scrittrice), secondo cui le istituzioni civili sono oppressive per gli uomini, istanzia la commedia e il riso non tanto come ulteriori forme di catartica ma in fondo forse estemporanea liberazione freudiana dagli istinti, quanto come soluzioni riflessive per recuperare nello stesso linguaggio questi residui invisibili, questa materia cerebrale incastrata nel midollo spinale. A cinquant’anni dall’uscita del film e a pochi mesi dall’Oscar alla carriera a Brooks, nessuno sembra più pensare alla commedia demenziale americana come un esperimento sul corpo dell’inconscio politico. Eppure, un tempo, si poteva fare!
Il film
Frankenstein junior
Comico - USA 1974 - durata 105’
Titolo originale: Young Frankenstein
Regia: Mel Brooks
Con Gene Wilder, Peter Boyle, Marty Feldman, Teri Garr, Cloris Leachman, Madeline Kahn
Al cinema: Uscita in Italia il 26/11/2013
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