L’ultima immagine di Dies Irae di Carl Theodor Dreyer è l’ombra di una croce cristiana a cui viene sovrapposto un tetto a falde spioventi, a comporre una forma che – fa notare Auro Bernardi in Carl Theodor Dreyer. Il Verbo, la legge, la libertà – è quella di una «croce cimiteriale», «come nelle più semplici sepolture che, ancora oggi in Danimarca, circondano le chiese».
È dunque la religione, o più ampiamente la fede, che diventa morte. Una conseguenza inevitabile da definizione di martirio, se non fosse che il martirio a cui si spinge nel finale la giovane Anne nel film non è un martirio cristiano, ma la falsa confessione a proposito di un’accusa per stregoneria. È stata Merete, la suocera, ad accusarla: Anne avrebbe causato la morte di suo marito Absalon, molto più anziano di lei, presbitero luterano di una comunità danese del 1623. Anne l’avrebbe fatto per poter stare con Martin, il giovane figlio di Absalon suo coetaneo.
Nella cappella dove avviene l’accusa, ai personaggi viene chiesto di prendere uno schieramento definitivo, sotto il segno di un manicheismo che l’ambiguità morale della scrittura di Dreyer trasforma nell’aut-aut del filosofo Søren Kierkegaard: il piacere o il dovere, non il giusto o lo sbagliato. Merete sta a destra della scena, e viene raggiunta da Martin; Anne rimane a sinistra.
Lo schieramento però viene fatto scricchiolare da alcuni contrasti profondi: coloro che si proclamano giusti e fedeli sono vestiti di un nero intenso, mentre Anne, accusata di essere serva di Satana, è vestita con un manto angelico bianco, che la copre dalla testa ai piedi. È il compimento di tutto un percorso costumistico che l’ha vista prima moglie fedele e rispettosa (capelli totalmente costretti sotto un copricapo), poi donna innamorata (i capelli cominciano a venir fuori dal copricapo), poi ragazza ribelle (il copricapo scompare).
Il percorso dei costumi di Anne era coinciso con la convinzione – sua, ma anche degli altri – che lei fosse una strega, perché figlia di una strega. Anche Anne è infatti vittima della suggestione, a seguito del rogo in cui era stata giustiziata l’anziana Marthe Herlof nella prima metà del film: è esattamente a tre quarti d’ora di minutaggio, praticamente a metà film, nel salone della canonica dove vive con Absalon, che Anne chiude gli occhi e invoca Martin, che in quell’esatto istante per caso entra nella stanza così da far iniziare l’adulterio. Anne si crede una strega.
L’altro contrasto dello schieramento del finale di Dies Irae è dato dalla posizione in cui si sposta Anne nell’ultimo minuto: al centro, vicino al corpo del marito defunto, contrita dalla delusione d’amore che le ha provocato il codardo Martin, forse convinta o forse no che Absalon potrebbe essere morto perché lei l’ha desiderato, perché nei suoi occhi brucia una fiamma diabolica.
Anne rivendica il suo potere, da persona suggestionabile del 1623, perché è l’unica cosa che le è rimasta. La sua «stregoneria, opposta a quella di Marthe, sembra essere il risultato di tensioni psicologiche» (Paul Schrader, Il trascendente nel cinema), ma non è solo metafora della delusione amorosa, è anche e soprattutto affermazione di se stessa, di essere contenitrice di un potere che in realtà non controlla – e che più probabilmente non esiste. Detentrice della fiammella nei suoi occhi che vedono in lei sia la severa Merete (che la detesta) sia l’ingenuo Martin (che la ama).
Il laicissimo film di Dreyer è calato naturalisticamente in un mondo di credenze e superstizioni e non è mai moralisticamente distante; è anzi affascinato dall’ipnosi trascendente che può causare una carrellata orizzontale, un chiaroscuro, un’ombra che trafigge una profondità di campo. È una dichiarazione laicissima, insomma, lo spiovente che copre la croce nell’ombra finale del film (non la fede, ma la morte), ma è comunque un’ombra che solennemente taglia lo sfondo bianco, un’illusione di luci, il cinema che è pellicola ma è fatto di altre sostanze, il cinema che si afferma orgoglioso sogno ad occhi aperti, contraddittoria possibilità escatologica al prezzo della profanità e al costo della morte.
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