Secondo Quentin Tarantino sono sei i film perfetti della storia di Hollywood: Lo squalo, L’esorcista, Io e Annie, Frankenstein Jr., Ritorno al futuro e Non aprite quella porta. La spiegazione del regista in tal senso è poco chiara: “Non ce ne sono molti, di film perfetti. Questo non fa che dimostrare quanto la forma d’arte cinematografica sia complessa. Quando ti riferisci ai film perfetti di solito stai parlando di film che non solo incontrano il gusto estetico di ogni singola persona, ma che generano un consenso unanime... i film perfetti toccano tutti i gusti, in un modo o nell’altro. Potrebbe non essere la tua tazza di tè, ma non c’è niente che tu possa dire per sminuirlo”. Per Tarantino, insomma, si tratta quasi di una questione kantiana: la difficile se non impossibile perfezione cinematografica corrisponde a un consenso oggettivo nel campo della soggettività di gusto. O meglio, corrisponde alla possibilità che nel campo delle legittime differenze (a me piace quello, a te quell’altro), qualcosa di inequivocabilmente condivisibile (il film stesso, nella sua perfezione) permetta in fondo di trovare terreno comune, e cioè comunicare.
Tarantino non dice perché o come questo avvenga, ma lo mostrano i suoi film, che, proprio misurandosi con il linguaggio degli anni 70, tendono sempre a una forma di intensità rivelatoria, che cerca di rompere la bolla della soggettività per innervarsi nei sensi condivisi. Ciò che, per il regista texano, rende quei film perfetti è infatti la loro capacità di riversare dal dentro al fuori l’inconscio collettivo, di incarnare (letteralmente mettere in carne) gli spettri sociali materializzandoli in forme tanto elementali, minerali potremmo dire, da risultare fisicamente esperibili e condivise, malgrado la loro natura rappresentativa. Come? Attraverso la materia filmica, la pura sostanza cinema, e cioè attraverso quello strumento in grado di manipolare i cardini della realtà - la luce, il tempo e lo spazio – per generare un salto da un “sensus communis” sensoriale a un senso comune cognitivo, antropologico. È questo scarto che fa la perfezione di quei film meteora, e ciò che rende per esempio Non aprite quella porta – di nuovo nelle sale italiane per il suo cinquantesimo anniversario - un logico referente tarantiniano.
Prendiamo in particolare il lungo finale del film di Tobe Hooper, che inizia da quando Sally, catturata e portata nella villa/macello, “cena” con la famiglia di cannibali. Pare oggi, a distanza e in retrospettiva storicizzata, uno straordinario incubo cinematografico, rarefatto nell’intensità drammaturgica e ovattato tra urla, brividi e grugniti estratti da estenuanti ore di ripresa sul set.
Per gli spettatori dell’epoca è stato invece un momento specchio: mentre la paranoia (poi si chiamerà post verità) impregnava già il tessuto cognitivo della società americana - tra Watergate, crisi petrolifera e soprattutto Guerra del Vietnam – le immagini di questa tortura allegorizzavano il crollo delle certezze, passando sullo schermo ancora incorniciate dalle didascalie introduttive, che le presentavano come un “evento realmente accaduto” in una sorta di scherzo wellesiano.
Per il pubblico del 1974 il banchetto di carne di “Faccia di Cuoio” e famiglia più che un climax sinfonico e seminale per il linguaggio dell’horror è stato anche per questo un frontale con l’inconscio. Come ha scritto Christopher Sharrets, che nel suo The Idea of Apocalypse in The Texas Chainsaw Massacre ha riconosciuto nel festino delle maschere di pelle un girone infernale successivo alle esperienze di Psyco e Gli uccelli per la coscienza della civilizzazione americana: “Se Psyco comincia come un’esplorazione di un nuovo senso dell’assurdo nella vita quotidiana e degli orrori nascosti sotto la superficie dell’american way of life, Non aprite quella porta spinge questa esplorazione all’estremo evitando ogni chiusura confortante”.
Ecco infatti che il pubblico supera definitivamente l’orizzonte della paura e incontra il trauma di una violenza incomprensibile, esalazione tossica di una terra americana un tempo paradisiaca (Hooper sembra quasi dialogare con il Malick di La rabbia giovane per come ribalta le forme del pacifico panorama campestre in un inferno di angoli vertiginosi), e ora invece compromessa dal delirio cannibalico (e cioè autodistruttivo) di un capitalismo industriale sul punto di trasformarsi nell’irregolato mercato post-industriale, mimando in scala nazionale le incontrollate pulsioni sessuali e incestuose di una società patrilineare.
Hooper suggerisce, orchestrando la discesa grandguignolesca dalla prospettiva sonora e quindi mentale della “final girl” Sally, che il delirio di sangue possa essere anche un viaggio intrapsichico e che quindi questo collasso sociale senza redenzione non sia in fondo così distinto dall’ingenuità liberal e hippy del dissenso giovanile dell’epoca – tesi che anche Tarantino riprenderà con i mensoniani di C’era una volta a... Hollywood.
Così lo sguardo del pubblico rimane come la linea dell’orizzonte che si intravede dal furgoncino su cui la ragazza riesca a scappare nei secondi finali: tagliato in due e poi ricomposto, suturato nella luce che organizza visivamente i virtuali conflitti sociali della società americana in un plesso spazio-temporale in cui galleggiare, materia organica che trascende la bidimensione – anche nella scena di apertura fasci di luce nel buio rivestono arti in decomposizione, trasformandoli in sculture.
Come una ferita che pulsa, si riapre e si rimargina, un urlo che diventa risata isterica fino a confondersi con il rombo della motosega, agitata nell’aria in forma di penna che più che tagliare i corpi scrive le immagini, le tiene insieme, le separa e alla fine ordina la loro fine.
Il film
Non aprite quella porta
Horror - USA 1974 - durata 83’
Titolo originale: The Texas Chainsaw Massacre
Regia: Tobe Hooper
Con Marilyn Burns, Allen Danzinger, Paul A. Partain, William Vail, Teri McMinn, Edwin Neal
Al cinema: Uscita in Italia il 23/09/2024
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