Nella sua indagine sul rapporto fra singolo e società, con tutti i poteri, dal primo al quarto, lì in mezzo a manovrare l’individuo, Frank Capra non omette nessuna ambiguità e nessun vicolo cieco, a costo di risultare complesso nel bel mezzo delle sue commedie più popolari e screwball. James Stewart è cocciutamente onesto in Mr. Smith va a Washington fino all’assurdo; il John Doe di Gary Cooper esiste davvero in Arriva John Doe nel caos di realtà e finzione che genera l’informazione giornalistica; il Gary Cooper di Mr. Deeds Goes to Town (È arrivata la felicità in italiano) è un esemplare imprevisto di buon senso, nonostante venga dalla sconosciuta Mandrake Falls e si ritrovi a far fronte al cinismo di New York quando un suo zio muore in un incidente e ben 20 milioni gli finiscono in tasca in eredità, costringendolo a trasferirsi in città.
Questo succede perché Frank Capra vuole escogitare essenziali macchine ad orologeria che trovino una sintesi lucida dietro la crudeltà di un mondo che si dichiara liberale e democratico ma inghiotte l’individuo e i suoi desideri. È così che New York diventa la tritacarne di Longfellow Deeds, homo americanus umile delle campagne, suonatore di tuba e poeta delle cartoline d’auguri. È così che lo divora la fame di successo di Babe Bennett, Jane Arthur furba giornalista che lo seduce per avere lo scoop che descriva l’uomo all’aristocratica Grande Mela come un giullare di cui ridere, un Cinderella Man che non riconoscerebbe un cavallo neanche se glielo mettessero sul muso. È così quindi che nel finale lo accusano di mancanza di sanità mentale coloro che vogliono mettere le mani più avidamente sul suo patrimonio e che temono maggiormente la sua generosità nei confronti dei più sfortunati. È così che si finisce in tribunale.
Ed è ovviamente così che Frank Capra – e il suo sceneggiatore Robert Riskin – citano a giudizio l’intera macchina di ipocrisia dell’alta borghesia newyorkese: quando Babe dichiara a pieni polmoni di amare Longfellow, che si è chiuso in un mutismo capriccioso perché arreso a una trappola mediatica e giudiziaria che lo vuole matto da legare, inizia uno spiegone che porta al banco dei testimoni quasi tutti i personaggi del film, in una carrellata di tic, nevrosi e piccolezze che la lente deformante dell’opinione pubblica può trasformare nelle peggiori delle sindromi.
Un finale degno di un giallo, in cui Longfellow diventa l’Hercule Poirot di un plot twist in cui sono tutti un po’ matti, un po’ manovrabili, e quindi un po’ colpevoli senza che nessuno lo sia davvero.
Per esempio: il giudice e lo psichiatra scarabocchiano sul loro quaderno mentre pensano; il figlio del pubblico ministero si è di recente esibito in una scena ridicola su un taxi perché ubriaco; le due signore di Mandrake Falls, che hanno definito Longfellow “picchiatello”, pensano che tutti siano picchiatelli tranne loro.
Anche Longfellow può essere “picchiatello”, e le due signore lo ripetono anche a processo concluso, dopo che Longfellow viene scagionato e ritenuto sano – o, per antitesi, dopo che tutti vengono giudicati pazzi – e dopo che lui stesso è rientrato nell’aula vuota a baciare Babe nonostante il tradimento di lei. “Sei davvero picchiatello”, dicono le due signore degne di Arsenico e vecchi merletti, e il bel cortocircuito della grande nazione americana, celebrata dallo stesso Longfellow a metà film durante un giro turistico della Grande Mela, è che tutti hanno diritto ad essere “davvero picchiatelli” pur di non essere voce pavida e codardamente anonima tra la folla.
Il film
È arrivata la felicità
Commedia - USA 1936 - durata 115’
Titolo originale: Mr. Deeds Goes to Town
Regia: Frank Capra
Con Gary Cooper, Jean Arthur, George Bancroft, Lionel Stander
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta