Nell’adattare il romanzo omonimo di Alberto Moravia, ambientato fra la fine della Seconda guerra mondiale e l’inizio del Secondo dopoguerra in Italia centrale, Vittorio De Sica si ritrova ad adattare anche la tradizione neorealista del cinema italiano dei quindici anni precedenti a cavallo fra due necessità differenti: l’avvicinamento e l’allontanamento, il proverbiale pedinamento di zavattiniana matrice e il rischio di distacco che esso stesso può generare.
La Cesira di Sophia Loren e la giovane figlia Rosetta sono in viaggio verso Roma. Dopo l’aggressione ricevuta in una chiesa dai goumier (i soldati nordafricani dell’esercito francese), vengono portate in un villaggio da Florindo (Renato Salvatori), giovane volgare che diventa il termine di divergenza fra madre e figlia: a Cesira ispira inaffidabilità, per Rosetta è forse un possibile punto di ripartenza dopo un trauma da cui - sente, forse - la madre non è stata in grado di difenderla. Per questo la notte, senza dir nulla, Rosetta lascia Cesira a casa e va ad una festa con Florindo.
Al ritorno di Rosetta il mattino dopo, Cesira le urla contro, la sculaccia, la accusa di essere cambiata, di non essere più la sua figlia d’oro. Rosetta è indifferente, si ostina a tenere un volto immobile, non fa nessuna smorfia quando mostra alla madre le calze di nylon regalatele da Florindo, probabile “pagamento” per una prestazione sessuale. De Sica si tiene largo, teatrale, “dalla parte di Cesira” tanto più che Rosetta alla festa non l’abbiamo pedinata, e abbiamo aspettato invece con la madre dentro la stanza, rischiando anche noi come Cesira di non capire effettivamente cosa stia succedendo a Rosetta.
De Sica si tiene largo fino al momento in cui però Cesira nomina Michele (Jean-Paul Belmondo), l’intellettuale dall’animo buono che i tedeschi hanno fucilato fra le montagne, e a cui sia Cesira che Rosetta si erano tanto affezionate. È solo allora che inizia un progressivo avvicinamento della camera alle due protagoniste, tramite primi piani.
Cesira chiede a Rosetta di perdonarla, perché forse non l’aveva capita. Dopo tanti sforzi, aveva permesso alla guerra di dividerle, anche dopo che la guerra con la G maiuscola era finita. Dal punto di vista di povere donne in viaggio, originarie della campagna e desiderose della vita di città, la guerra continua, e lo sforzo fra le macerie è quello di potersi abbracciare e piangere insieme. De Sica, però, con la sua cinepresa, a quel punto, si allontana.
E non si allontana di poco, ma parecchio: oltre il letto, oltre gli oggetti della stanza, oltre le ruote di un carretto, perfino oltre i confini dell’inquadratura, così che l’immagine vada rimpicciolendosi, la musica di Armando Trovajoli zittisca i rumori delle macchine e degli aerei alleati, e il film finisca lontano quando finalmente le protagoniste sono di nuovo vicine.
La forza melodrammatica del finale della Ciociara incornicia il fulcro dell’eredità della guerra mondiale in Italia dentro una stanza, con due donne che la guerra l’hanno sentita, sfiorata, e infine subita mentre gli americani sfilavano festosi sulle strade – tra l’altro quasi investendo Rosetta, poco prima del finale, a sfiorare l’occorrenza di un’altra tragica “pelle” à la Curzio Malaparte. L’allontanamento di De Sica nel finale della Ciociara riscrive la lucidità neorealista della distanza dello sguardo rilanciando una nuova urgenza del kammerspiel e della commovente tragedia da camera, mentre fuori il mondo muore ma le protagoniste attraversano la morte e poi lontane dagli occhi di tutte sopravvivono.
Il film
La ciociara
Drammatico - Italia 1960 - durata 110’
Regia: Vittorio De Sica
Con Sophia Loren, Eleonora Brown, Jean-Paul Belmondo, Raf Vallone, Andrea Checchi, Carlo Ninchi
Al cinema: Uscita in Italia il 04/07/2024
in streaming: su Apple TV Amazon Video Rakuten TV Google Play Movies Rai Play Timvision
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