Sono tutti esercizi i film di David Mamet. Esercizi di teoria di scrittura, di drammaturgia, di cinema. Si capisce dal rapporto tra forma e contenuto. Guardateli, guardate come si muovono le loro immagini: non hanno peso, sono leggere, sfuggono veloci e quasi spoglie, come se fossero improvvisate. Alla maniera di uno schizzo, un progetto, un’idea di architettura, il copione di un colpo di rapina magari - “Ho scritto un colpo talmente bello che se fossi un editore pubblicherei il piano. Solo che faccio il ladro” diceva il personaggio di Danny DeVito in Il colpo, forse il film testamento di Mamet. Sono giochi di prestidigitazione, che procedono per accensioni e spegnimenti, non tanto ripetitivi quanto formulaici, perché composti da formule reiterate, studiate per sperimentare, mettere alla prova, testare. Chi?
Lo spettatore - Mamet, tra i più grandi drammaturghi del 900, fa trait d’union tra le attese assurde di Samuel Beckett e le teorie sulla fruizione cinematografica di Walter Benjamin (“lo spettatore è un esaminatore distratto”) - ma in realtà prima di tutto il linguaggio. Che viene fatto girare, fatto parlare, mosso in una disperata ricerca di senso. Riesce il linguaggio a dire il senso delle cose, a esprimerlo? Riesce a performarlo, a comunicarlo, a farlo passare nel mondo attraverso un’azione concreta? E il non senso invece? Se anche fosse possibile esprimere il bene, l’amore, come fa il linguaggio a dire ciò che non è, il negativo, il male? Sotto ai gesti da illusionista, sotto le strutture di genere di tutti i suoi film (dai noir ai caper movie fino alle commedie che riprendono Preston Sturges e la Hollywood che fu), sotto l’uso bressoniano degli attori - strumenti da cui scolpire fuori il linguaggio -, ci stanno queste domande, ci sta soprattutto l’abisso nero di un’ossessione in forma interrogativa: “Qual è la vera natura del male?”. Scambio di carte veloce nella casa del gioco, scatto acrobatico per volontà di potenza sopra l’abisso, malgrado la possibilità che questo abisso resti irrisolto a fior di labbra: ecco il cinema per Mamet.
E Homicide in questo senso è il suo film più rivelatorio. Lì, nelle battute iniziali, la domanda è posta letteralmente, come confà al prestigiatore, davanti ai nostri occhi. Non è fatta dire dal protagonista – il detective Bobby Gold, un negoziatore di ostaggi, uno che entra sempre prima di tutti nello sfondamento, uno che conosce il mestiere –, ma da un criminale, che, appena portato in centrale, ha tentato di suicidarsi con la pistola di Gold: “Potrei rivelarti la vera natura del male. Vuoi sapere come risolvere il problema del male? Lo vuoi sapere?”. L’eroe, per Mamet, non è quello che si pone la domanda o quello che conosce la risposta, ma chi passa dal non porsi la domanda al sapere che non c’è risposta, cioè quello che compie il viaggio di accettazione tragica – in senso shakespeariano “la tragedia è la celebrazione non di un trionfo occasionale ma della verità, non è una vittoria ma una rassegnazione”.
Gold è questo eroe della strada (un uomo comune, un bianco, un americano ebreo), che prima non si fa domande - “Il problema del male? Se poi lo risolvo resto disoccupato” – e poi senza accorgersi inizia a cercare disperata risposta. La trama non è che per il regista un’occasione, una proiezione, appunto un canovaccio eventuale, con cui proiettare in termini plastici (anche grazie alle invenzioni visive di Roger Deakins) questa disperazione tra le ombre del dubbio. In questo caso il MacGuffin psicanalitico, transfert hitchcockiano, è l’omicidio di un’anziana ebrea, uccisa nel suo negozio dall’odio antisemita “per un tesoro nascosto nella cantina”; o meglio, è il caso di una cospirazione sionista, che traffica armi e vuole fare guerra al neonazismo di quartiere.
Gold non è interessato, ma inciampa nello scivolo dell’inconscio, che lo fa precipitare giù, in un nebuloso campo d’indeterminazione. Homicide potrebbe sembrare una brutta copia di Fuori orario (che è di sei anni precedente), ma a Mamet l’oblio della verità del mondo là fuori interessa per ragionare sul dolore del singolo, più che sulla scorsesiana dialettica tra pulsione e redenzione. Come i grandi maestri del sospetto, il drammaturgo americano sa (come recentemente Cronenberg con il suo The Shrouds) che il complottismo è un segno dell’incapacità di amministrare la sofferenza, di venire a patti con il male, di controllare la totalità che sempre ci sfugge.
L’indeterminazione, lo sdoppiamento dei piani, i doppiogiochismi e i doppifondi – quanti nel cinema di Mamet – sono solo un sintomo dell’abissale incertezza, il modo in cui il linguaggio cerca di fare volume, di esprimere il vuoto al fondo delle cose. Gold si inceppa intorno a questo vuoto, sbaglia, cede, tradisce, diventa anche attentatore sionista, soldato del complotto, dell’odio (a margine ecco una lucida riflessione sulle vittime che trasformano il dolore in ideologia e diventano carnefici).
Il poliziotto si dimentica del caso di cui doveva occuparsi – materia federale, con un fuggiasco killer di poliziotti da ritrovare prima dell’FBI - e arriva fatalmente tardi alla sparatoria dove muore il suo collega e amico Sullivan. Quando si precipita a uccidere il ricercato per vendetta personale, entra in una caverna sotterranea che pare quella platonica: è il ritorno del filosofo che alla luce del sole ha imparato cosa sia davvero il buio.
In un geniale ribaltamento del “fucile di Čecov”, la pistola del detective comparsa all’inizio (quella con cui il detenuto aveva cercato di suicidarsi) non spara, anzi è proprio perduta. Ferito, Gold mostra al killer il passaporto falso con cui la madre lo avrebbe incastrato, e con questo segno di identità fasulla l’eroe conclude il suo viaggio di accettazione del fallimento. Solo che il viaggio non si può concludere.
Tornato in centrale, non ha più certezze, ha perso il suo amico, ha perso il caso, è fuori dalla Omicidi. Quando di nuovo incrocia lo sguardo del criminale che voleva rivelargli la vera natura del male, gli occhi di entrambi si incrociano vuoti: la domanda ormai resta senza risposta.
Il film
Homicide
Poliziesco - USA 1991 - durata 101’
Titolo originale: Homicide
Regia: David Mamet
Con Joe Mantegna, William H. Macy, Natalija Nogulich, Vincent Guastaferro
in streaming: su Amazon Prime Video Amazon Video Timvision
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