Tra tutte le importanti e vistose differenze che intercorrono tra lo Scarface di Howard Hawks e lo Scarface di Brian de Palma, nessuna meglio della sparatoria finale spiega la diversità dei due progetti, il loro ruolo nella storia del cinema, il posizionamento dei film rispetto alla teoria dell’immagine. In entrambi Tony è circondato nelle sue stanze private, ormai messo alle strette: nel film di Hawks è la polizia che circonda il suo appartamento, mitragliando i pochi spiragli del bunker in cui il malavitoso si è ritirato; nel film di De Palma invece ad assediare il criminale sono i sicari di Sosa, boss del cartello boliviano pronto a vendicarsi del tracollo psicotico del suo ex collaboratore.
Mentre nel film di Hawks la polizia resta sulla strada a distanza, e all’interno l’apice melodrammatico corrisponde alla (mancata) risoluzione tra Tony e sua sorella Gina - decisa a uccidere il fratello per vendicare l’amato Manny, assassinato per gelosia proprio da Tony -, nel remake di De Palma, scritto da Oliver Stone, i sicari entrano nella magione classicheggiante dello sfregiato. È un vero e proprio attacco endemico, un’infezione batterica, che supera le barriere ultra-protette della casa e si libera velocemente dei pochi anticorpi rimasti intorno a Tony.
Da un lato il grigio appartamento incastrato nell’anonimato della grande città, dall’altro i giardini irrorati d’acqua, gli interni cremisi, le venature del marmo: un’architettura viva che si dispiega come un intreccio venoso e brillante, un organismo pulsante, un parco giochi anatomico che fa da scenografia alla terza fase di un collasso biologico. È un assalto virale al castello di carne, come in una metastasi, narrativa e formale, che segue logicamente una prima sezione dinamica - l’ascesa criminale di Tony negli Stati Uniti dopo l’espatrio forzato da Cuba per volere di Castro - e un secondo stadio statico - l’accentramento e il consolidamento del potere commerciale a discapito di tutto il resto.
Il ritorno del dinamismo formale - per la conclusione tornano i movimenti di macchina virtuosi e snodati che si incastravano senza sosta sostenendo il ritmo ipnotico della prima parte - non porta infatti con sé alcuna progressione a superamento della staticità, quanto piuttosto un senso riflessivo, di ripiegamento, decorativo e volumetrico. Laddove Hawks rimuove tutto, sceglie la trasparenza, la linea chiara di un corrimano da cui Tony scende per incontrare un destino già scritto, De Palma fascia il suo Tony con una serie di mediazioni, tende, fumo, greche, ghirigori e soppalchi, che teatralizzano la scena, la rallentano, la raddensano addirittura, facendo sì che tutto sembri il riflesso di un grande acquario pieno di sangue.
L’effetto spropositato, barocco, postmoderno è proprio solo un effetto: un’immagine e nulla di più. Il regista di Newark chiude in un angolo il girotondo apocalittico prodotto dalle nevrosi del personaggio principale, più per farlo implodere che per elaborarlo. Non gli interessa descrivere tanto la spirale psicosociale - appannaggio di Stone, che si legò al progetto anche per riflettere sulla dipendenza da cocaina, oltre che per criticare la gestione del problema della droga da parte del governo statunitense -, quanto intercettare a livello espressivo l’astrazione della materia, che, compressa nello spazio e portata a un alto volume di densità e definizione, si fa immagine.
Il film in fondo è su commissione (l’idea iniziale di Al Pacino, promotore di tutto il progetto, era di girare con Sidney Lumet), ma la linea autoriale si rileva proprio notando come per il regista Tony Montana sia un sintomo (non a caso con quasi nessuna profondità psicologica) della progressiva virtualizzazione dei corpi nella cultura occidentale. Già amante dell’immagine gangster, ossessionato dagli spettri di Bogart e Cagney, Montana arriva negli Stati Uniti misurandosi con le immagini del mito americano. Vuole le stesse cose che ha visto al cinema, e quando le ottiene (i soldi, la donna del boss, il potere), si mette a mollo nella vasca e si gode la televisione.
Ignorando l’incomprensione dei suoi più stretti collaboratori, si trincera spendendo buona parte del patrimonio in sorveglianza video: nel suo studio sei schermi mandano le immagini delle telecamere a circuito chiuso, doppiando il palazzo in una serie di rifrazioni immaginarie. Per De Palma, Tony è un consumatore di immagini, al punto tale da diventarne una. Quando Gina muore crivellata dai colpi e tutti i suoi sicari cadono nel balletto vendicativo organizzato da Sosa, la sicurezza interna è ormai compromessa per sempre, e allora tanto vale affacciarsi sul palco. “Le vostre pallottole non mi fanno niente”, proclama il criminale sul palchetto dorato il personaggio di Pacino e suona molto diverso dal “Vi prego, non sparate” che il personaggio di Hawks sussurra nella sporca penombra.
A distanza di cinquant’anni anni il corpo criminale che muore per strada, rantolando, cercando di scappare, si è trasformato in un’immagine che non prova dolore, che non può sanguinare, che non può morire (e infatti non muore, diventa piuttosto merce, commodity, linguaggio). In mezzo, ci stanno la censura del codice Hays e la commistione con il cinema europeo, Jean-Luc Godard e Arthur Penn, il mito di Bonnie e Clyde, l’estetizzazione sensuale del crimine che giunge al suo apice. Alla fine, i televisori mandano solo rumore, “effetto neve”, e lo sfregiato non vede più nulla, è cieco, anche lui un circuito chiuso, già gif in loop. È normale che non si accorga che dietro di lui un sicario stia per scagliare il colpo finale: un’immagine non sa cosa ha alle spalle.
Il film
Scarface
Gangster - USA 1983 - durata 170’
Titolo originale: Scarface
Regia: Brian De Palma
Con Al Pacino, Steven Bauer, Michelle Pfeiffer, Robert Loggia, Mary Elizabeth Mastrantonio, Miriam Colon
Al cinema: Uscita in Italia il 08/04/2024
in streaming: su Now TV Sky Go Apple TV Microsoft Store Google Play Movies Rakuten TV Amazon Video Amazon Prime Video Timvision
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