Christopher Nolan ha vinto il suo primo Oscar alla Miglior Regia per Oppenheimer. Dopo aver dominato la stagione dei premi, acquisito il plauso generale della critica e incassato un miliardo di dollari in meno di un anno (sei miliardi è la cifra raggiunta dalla sua intera filmografia al box office), ci si chiede se oggi sia lui il più importante regista dell’industria americana. Lo sussurrano ai giornali gli addetti ai lavori (“Nessuno ora ha più potere. Può fare quello che vuole” ha dichiarato un anonimo A-star agent), lo dicono apertamente i colleghi amici (Denis Villeneuve, tra gli altri), e in qualche modo lo suggerisce l’industria stessa come istituzione, che sceglie Steven Spielberg, ex titolare del ruolo di guida creativa, per premiarlo sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles.

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Oppenheimer

Il simbolico passaggio di testimone non è inedito, anzi, ricorda quello che vide protagonista James Cameron nel 1998, quando l’industria scelse una figura simbolo del passato (Warren Beatty) per certificare formalmente la fine di una fase storica (la New Hollywood) e l’inizio di una nuova (il blockbuster tecnologico). Allora il premio, oltre a un riconoscimento di merito, era anche un modo per accogliere un grande cambiamento, o meglio, normalizzarne la carica innovativa, facendolo sembrare parte della continuità storica industriale, piuttosto che il segnale di un terremoto imminente. Cinque lustri dopo, mentre Hollywood emerge dagli scioperi con più diritti da garantire, meno sicurezze commerciali confermate (ecco l’attesa superhero fatigue), e un’invariata crisi d’ispirazione, quale significato assume invece il premio assegnato a Nolan?

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Come già con Cameron, a essere premiato, o meglio, accolto nella storia istituzionale di Hollywood, più che un singolo film isolato, è un nuovo modo di fare cinema mainstream, quello che il compianto David Bordwell, nel suo libro Christopher Nolan. A Labyrinth of Linkages, ha definito incentrato su “un progetto formale d’innovazione”. Non l’innovazione tecnologica, come per il regista canadese, e neanche quella tematica o stilistica, come per Spielberg, bensì narrativa. Per essere più precisi, a essere premiata è stata la capacità di Nolan di portare le forme narrative della New Narrative Complexity (e quindi la narrazione in soggettiva, il film come gioco mentale irrisolvibile, la non-linearità temporale) dal minimalismo produttivo del noir indipendente al gigantismo milionario del genere americano più premiato, il dramma biografico. Per capire meglio in cosa consistano queste nuove forme basta guardare a ritroso la carriera del regista inglese attraverso il finale di Oppenheimer.

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Il film è alle sue ultime scene quando tre momenti storici si intrecciano. Nel 1959 il Senato rifiuta la candidatura di Lewis Strauss a segretario del commercio. L’ammiraglio incolpa del suo insuccesso Oppenheimer, a suo dire responsabile di avergli messo contro la comunità scientifica usando Einstein, e incamminandosi verso i giornalisti per mascherare la delusione indossa il proprio cappello. Un semplice taglio di montaggio ci porta indietro nel tempo, a un altro cappello, che il vento di una assolata giornata del 1947 fa cadere proprio dalla testa di Einstein. A raccoglierlo è proprio Oppenheimer, e la segreta conversazione tra i due scienziati è quella che ha innescato le ossessioni di Strauss.

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Einstein descrive al padre dell’atomica il suo roseo futuro: nel 1963 Lyndon B. Johnson gli consegnerà il Premio Enrico Fermi, suggerendo l’ammissione di colpa da parte dello Stato e la riconciliazione con la politica. Le previsioni però non consolano il Prometeo americano, che, con sguardo angosciato di fronte ai centri concentrici prodotti dalla pioggia sullo specchio dello stagno, confessa ad Einstein la propria colpa: l’invenzione deve aver innescato una reazione a catena distruttiva. Mentre la folle esultanza del popolo americano rimbomba ancora nelle sue orecchie, la visione di un futuro apocalittico passa attraverso la sua mente; le testate nucleari prendono il volo, il mondo si infiamma, diventa una goccia di fuoco, ed è troppo tardi per chiudere gli occhi.

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Come già in Memento, dove la sconnessione tra fabula e intreccio era così radicale da concludere il film alla metà del racconto, disorientando lo spettatore per rispecchiare la condizione clinica del protagonista affetto dalla perdita di memoria a breve termine, in questo finale l’ordine cronologico e quello narrativo si scollano ancora: il pentimento a metà della vita di Oppenheimer è “spostato”, contrariamente alle usuali convenzioni biografiche, al finale del film per scolpire fuori dalla storia il trauma di una soggettività scissa, l’origine dell’identità non come un punto zero all’inizio di una linea retta, ma come l’occhio di un vortice quantistico che gira su se stesso.

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Oppenheimer chiude così il progetto narratologico aperto da Nolan con Memento, portando la stessa innovazione formale, cresciuta di progetto in progetto – l’heist movie incentrato sulla dilatazione del tempo narrativo, il film di fantascienza disegnato come una topografia palindroma, il film di guerra rimediato da tre soggettive elementali –, fino a un punto di equilibrio sospeso tra l’avanguardismo teorico e l’intrattenimento di massa. Anche Cameron non vinse per la sua fantascienza liquida e visionaria, ma per il suo melodramma storico: ecco che Hollywood premia il momento in cui la carica innovativa si è integrata alla perfezione con il linguaggio dell’industria, e cioè nel momento in cui è più facile piegare l’innovazione allo sfruttamento commerciale ripetitivo. Niente di sorprendente. Ora che il postmoderno ha reso obsolete le categorie legate al posizionamento culturale (le vecchie e aristocratiche diciture alto e basso, midcult, middlebrow e masscult), l’innovazione artistica e l’integrazione industriale non sono più teoricamente incompatibili: un grande prodotto di intrattenimento può essere avanguardista.

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Il ripetersi di questo tipo di premio/investimento però richiama a una responsabilità. Vivere in una cultura in cui l’avanguardia può essere di massa è una scommessa continua: comporta l’alto rischio che l’innovazione possa essere normalizzata, ma anche il grande guadagno di aprire il mainstream al cambiamento e incontrare il nuovo. Lo spettatore può scegliere come scommettere, se assecondare la normalizzazione o crescere in senso critico, circolando tra le forme con consapevolezza e seguendo i percorsi ramificati dell’innovazione dal centro dell’industria ai suoi margini. Nel secondo caso magari viaggerà secondo rette interpretative non lineari dal finale di Oppenheimer al finale di un film molto diverso, in cui un’altra figura della storia, il direttore di Auschwitz Rudolf Höss (vissuto negli stessi anni e morto proprio nel 1947), è rappresentata come inaspettato e inconsapevole testimone di una visione del futuro. Il finale, insomma, di La zona d’interesse.

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Autore

Leonardo Strano

Leonardo Strano si è laureato in Filosofia dell’Esperienza Estetica con una tesi sull’inconscio ottico in Walter Benjamin e Jacques Tati (il suo regista preferito). Mentre prosegue gli studi in Teoria dell’immagine scrive per Filmidee, Pointblank e DinamoPress.

Il film

locandina Oppenheimer

Oppenheimer

Biografico - USA, Regno Unito 2023 - durata 180’

Titolo originale: Oppenheimer

Regia: Christopher Nolan

Con Kenneth Branagh, Florence Pugh, Cillian Murphy, Emily Blunt, Josh Hartnett, Jack Quaid

Al cinema: Uscita in Italia il 23/08/2023

in TV: 26/12/2024 - Sky Cinema Due - Ore 21.15

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