Una chiave, una lettera, un diario. Francesca lascia questo ai suoi due figli: documenti sparsi, scritti impolverati dentro un baule, l’occasione di leggere e scoprire una verità nascosta nel tempo, frammentata attraverso un lungo racconto, in un enigma da risolvere a distanza di trent’anni. “Dopo aver svuotato il contenuto della cassetta di sicurezza, sono sicura che alla fine troverete questa lettera. È dura scrivere queste cose ai propri figli. Potrei lasciar morire tutto insieme a me, ma diventando vecchi si ha paura di non essere conosciuti. Quello che per noi è importante, più di ogni altra cosa, è di essere conosciuti, conosciuti per ciò che si è stati durante questa breve vita. E mi sembrerebbe molto triste lasciare questa terra senza che coloro che ho più amato mi conoscano davvero per quella che ero. Per una madre è facile amare i propri figli comunque siano, è naturale, non lo so se è facile per i figli: siete tutti così arrabbiati per avervi cresciuto nel modo sbagliato. Si chiamava Robert Kincaid...”.
Di fronte alle parole della madre, Caroline e Michael sono esterrefatti, non si capacitano. Tra pagine scolorite e vecchi artefatti, appesi a un fragile filo d’inchiostro, cercano di trovare un modo per rimettere assieme i pezzi di un mistero confuso. Si addentrano a poco a poco nei quattro giorni in cui Francesca e Robert, un fotografo del National Geographic, si sono amati e salutati per sempre. Mentre indagano sembrano i detective che inseguivano “Butch” Haynes lungo i confini statali di Un mondo perfetto: all’inizio si fanno guidare dalle certezze (“Come sarebbe a dire cremata, non è possibile, la mamma sarà seppellita nel lotto comprato da papà”), soccombono ai pregiudizi (“Cosa dovrei pensare di lei ora...”), ipotizzano alibi e moventi (“L’ha fatta ubriacare! Ecco quello che è successo, forse l’ha pure violentata. Per questo non poteva raccontarcelo”) e la prendono sul personale (“Come ha potuto non dircelo”).
Provano insomma a prendere i fatti e sommarli, per ottenere un risultato, una logica che li rassicuri, qualcosa che risolva l’enigma e li metta al sicuro dal passato. Ma presto si accorgono che i conti non tornano, che qualcosa sfugge dal loro sguardo retrospettivo, dalla loro misura, e forse non sfugge all’indietro ma in avanti, verso di loro. Mentre si alternano nella lettura dei diari, i due figli ascoltano meglio la madre nella sua confessione, si avvicinano al suo sguardo, iniziano a capirla.
I documenti prendono vita: le fotografie scattate da Robert sui ponti coperti di Madison County si animano dell’appassionato volto di Francesca, dei suoi capelli al vento, della sua carezza nascosta nell’erba. Come se le leggi della prospettiva si ribaltassero, piano piano l’incomprensibile passato smette di sprofondare verso l’ignoto e si trasforma nell’orizzonte confuso e vibrante del presente. I dubbi sulla felicità della madre si trasformano così in certezze sulla propria infelicità: Caroline abbandona ogni cinismo per il suo triste matrimonio, Michael invece si confessa nelle sue malcelate insicurezze maschili.
Invece di cercare di pagina in pagina, di stazione in stazione, la musica che si aspettavano dalle sue parole, si sintonizzano alle note del ballo degli amanti, le ambigue e indefinite note del blues. E quindi le note spezzate di un canto che l’armonia classica considera dissonante e invece porta su di sé il paradosso del sentimento e l’inarrestabile cambiamento del tempo della vita, che non è mai mera somma delle parti (ricordate come finiva Bird?). È forse proprio suggerendo di rileggere questa storia d’amore classica – un melodramma lirico e asciutto inspessito da dissolvenze sempre più cariche -, seguendo i dolci principi del blues – l’improvvisazione e la riscrittura –, che Eastwood si dimostra non tanto l’ultimo regista classico americano, ma il primo e più grande regista neoclassico, per come lo intendeva Vincenzo Buccheri: un artista né estraneo né schiavo del suo tempo (postmoderno, e cioè senza più coordinate, senza più direzioni di senso), ma piuttosto guidato da una visione alternativa (una terza via tra classicità e modernità); capace di rispondere alla “frammentazione, al manierismo e all’amoralità programmatica” non con il rifiuto proprio dei reazionari, ma con la “ripresa delle auctoritates, la linearità e l’interrogazione morale” di chi lotta “dentro un contesto culturale e stilistico in cui il passato è perduto, l’innocenza irrecuperabile e il presente va vissuto in tutta la sua dolorosa imperfezione”.
Nel suo libro Lo stile cinematografico (edito da Carocci), Buccheri si riferiva al finale di Un mondo perfetto, ma il discorso vale anche per I ponti di Madison County: le armonie sono finite, restano ricordi e testamenti. Con una precisazione però. Se nel primo film lo stesso Eastwood sembrava attestare l’impossibilità di capire il dissidio del tempo (“Io non so niente. Non lo so e non lo voglio sapere”), nel finale del secondo, specchio del precedente, la possibilità di comprendere invece si ricompone. Anche se il passato è perduto e l’innocenza è irrecuperabile, anche se la storia d’amore non si compirà mai, se si attraversa la voce dell’altro il presente può essere luogo di una riconciliazione, momento di una finale comprensione. Quando alla fine tutti gli indizi assumono un nuovo senso, Francesca può finalmente essere conosciuta: donando il vestito più amato alla figlia, risvegliando l’amore nel figlio, tramandando il ricordo della propria scelta sofferta. E allo stesso tempo tornando assieme a Robert, là dove la corrente del fiume incontra nell’aria, sempre e di nuovo, l’equilibrio del ponte.
Il film
I ponti di Madison County
Mélo - USA 1995 - durata 135’
Titolo originale: The Bridges of Madison County
Regia: Clint Eastwood
Con Meryl Streep, Clint Eastwood, Annie Corley, Victor Slezak
in TV: 21/12/2024 - Sky Cinema Romance - Ore 00.30
in streaming: su Now TV Sky Go Apple TV Google Play Movies Rakuten TV Timvision Amazon Video
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