La vita privata di Sherlock Holmes (1970) è da sempre considerato tra i più atipici adattamenti delle gesta dell’eponimo detective. Il film elenca come da contratto tutti i segni che identificano l’universo narrativo di Conan Doyle: non solo la coppia di protagonisti ma la donzella in pericolo, la bisbetica Mrs. Hudson, Moriarty (anche se solo evocato), l’ambiguo e mellifluo Mycroft Holmes; il risalto maggiore però è dato agli elementi più sottaciuti, dal consumo di cocaina alle tendenze depressive, fino ai riferimenti omoerotici che da sempre hanno accompagnato l’ermeneutica delle avventure del detective e che forse furono all’origine della decisione dell’autore, a un certo punto, di far sposare Watson.
Vengono citati alcuni classici (come L’avventura della Lega dei capelli rossi) e Watson è qui, come nel mondo costruito da Doyle, l’effettivo autore dei testi che leggiamo, in una sorta di giustificazione metanarrativa della focalizzazione interna. Ma se c’è un racconto a cui il film di Billy Wilder somiglia è Uno scandalo in Boemia, forse il più ambiguo della produzione gialla dello scrittore britannico. Anche lì, come qui, il detective affronta un mistero legato allo spionaggio internazionale e anche lì, come qui, al centro vi è una donna, vera femme fatale, di cui Sherlock forse si invaghisce, e che riesce, unica nelle cronache, a ingannarlo, anche se solo parzialmente.
Nel film di Wilder il fallimento è più acuto rispetto al racconto: non solo Sherlock non scopre l’inganno della donna ma se lo fa spiegare da Mycroft (certo personaggio altrettanto se non più brillante di lui, e questo salva le apparenze) e di fatto affronta la disfatta non solo del suo metodo deduttivo ma del suo famigerato intuito. Questo perché da campione positivistico e mito della razionalità lo Sherlock di Wilder (e di Robert Stephens che tentò il suicidio durante le riprese e dona al personaggio una caratterizzazione sottilmente nevrotica sotto l’apparente impassibilità anglosassone) cede alle emozioni, è rapito dalle grazie di una donna (e ingiustificatamente. Ché a Geneviene Page non viene chiesto di riprodurre il fascino e il magnetismo della Irene Adler di Scandalo in Boemia), si fa trascinare fino in Scozia alla ricerca del Mostro di Loch Ness e vi trova invece la Regina Vittoria, lavorando suo malgrado contro il governo di Sua Maestà.
La dipendenza dalla cocaina acquista quindi un’altra luce: non bizzarria da artista bohemienne ma “gorgo di alienazione terrificante” (come recitava il Papa di Dario Fo dopo aver vissuto tra i tossici) ed è proprio il finale a esplicitarlo. La colazione di Holmes e Watson è interrotta da una missiva di Mycroft che informa il fratello della sorte capitata alla donna che lo ha ingannato. Sherlock allora chiede all’amico medico dove ha nascosto la droga e Watson, impietositosi, non può che rivelarglielo.
Il brillante detective abiura ancora una volta al pensiero raziocinante, prende in mano la siringa e si rinchiude nelle sue stanze. Lo squallido epilogo ha il merito di gettare molte ombre su alcuni sacri valori: prima di tutto la ragione, obnubilata dalla difficoltà di affrontare le proprie emozioni, e in secondo luogo l’ironia, il sarcasmo tipici di Wilder, donati ai protagonisti come una coppia-copia di Lemmon & Matthau, strumenti inutili ed inefficaci dinanzi all’abisso dei propri dilemmi esistenziali.
Così anche il dialogo arguto, la singolar tenzone dialettica, che unisce Conan Doyle e Wilder, fonte e adattatore, ipotesto e ipertesto, si attutiscono. Rimangono il silenzio di un amico verso la rassegnazione dell’altro, e la difficoltà del linguaggio nel parlare al cuore degli uomini.
Il film
La vita privata di Sherlock Holmes
Giallo - Gran Bretagna 1970 - durata 128’
Titolo originale: The Private Life of Sherlock Holmes
Regia: Billy Wilder
Con Robert Stephens, Colin Blakely, Irene Handl, Christopher Lee, Geraldine Page
in streaming: su Apple TV Amazon Video
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