Perfect Days potrebbe sembrare un sequel di Il cielo sopra Berlino. Hirayama, il protagonista dell’ultimo film di Wim Wenders, si comporta come un angelo finalmente in pace con la propria trasformazione in un uomo. Lo ha riconosciuto lo stesso Wenders, incalzato da Roberto Manassero nell’intervista sull’ultimo numero di FilmTV dedicato al regista: “Hirayama è in qualche modo simile all’angelo di Il cielo sopra Berlino? Ci devo pensare un attimo, non saprei... Diciamo che Hirayama è molto vivo, e questa è una grande differenza, e per di più, da umano, ha la capacità di vivere pienamente nel qui e ora: un tipo di esperienza che nella sua vita eterna l’angelo non ha mai conosciuto. D’altra parte, però, si potrebbe dire che Hirayama è una persona molto spirituale, addirittura una specie di monaco, e questo certamente avvicina i due personaggi. Una cosa, però, li accomuna più delle altre: tutti e due sono estremamente gentili, e per entrambi le persone sono tutte uguali. Hirayama è il solo a notare il senzatetto che vive accanto a uno dei bagni di cui si prende cura. Lo saluta ogni volta che lo vede. Damiel, l’angelo di Bruno Ganz, avrebbe fatto lo stesso”.
È bello pensare a questo tipo di simmetrie. Sono come un’offerta di pace dopo una litigata, rassicurano, danno un’idea di coerenza e fiducia, sia nel ruolo della critica sia nelle scelte di un autore. Allo stesso tempo, come fa capire l’interdizione dello stesso Wenders, non bisogna accomodarsi nelle facili impressioni, o meglio alle facili retrospezioni. Intendere Perfect Days come un grande ritorno del regista alle sue più riuscite ispirazioni, e pensare queste stesse ispirazioni solo come la gioia per le piccole cose, per gli umili segni umani, è fare un torto alla complessità di un pensiero magari non sempre simmetrico ma di certo sempre coerente. La pacificazione esistenziale di Perfect Days non deve oscurare il dissidio teorico da sempre centrale nella sua filmografia, piuttosto il contrario: nella gioia per il presente della vita dell’ultima favola giapponese va intravista l’ennesima raccomandazione morale di un pensatore contemporaneo, che ha da sempre pensato come un maestro apocalittico.
Proprio il finale di Il cielo sopra Berlino, apparente apologo poetico delle piccole gioie umane, si mostrava come una riflessione sull’importanza e la fatica di raccogliere i pezzi di un mondo alla fine. Non si chiudeva sulla consapevolezza mortale di un angelo, a cui era concesso un inizio, il colore della vita terrena, ma con l’attestazione di una missione non conclusa (“To be continued”) da parte di Homer, l’anziano poeta in cerca di Postdamer Platz: “Nominami degli uomini, delle donne, dei bambini che cercheranno me, il loro narratore, cantore, corifeo. Perché essi hanno bisogno di me, più di ogni altra cosa al mondo: siamo tutti sulla stessa barca”.
Questi versi, sussurrati sotto l’attento sguardo di Cassiel, l’angelo custode del poeta che solo in Così lontano così vicino diventerà uomo, sono la fine di un pensiero che percorre tutto il film. Iniziato dalla biblioteca (“Narra, musa del narratore, l’antico bambino gettato ai confini del nulla e fa che in lui ognuno si riconosca. Col tempo quelli che mi ascoltavano sono diventati miei lettori e non siedono più in circolo, ma ognuno per sé, e nessuno sa nulla dell’altro. Un vecchio sono io. di voce stridula.”). Condotto tra le immagini del disastro più grande, malgrado tutto (“Ma il racconto si leva ancora dal profondo e la bocca, lievemente aperta, lo ripete, con forza e facilità. Una liturgia dove nessuno va iniziato al senso delle parole e delle frasi. Il mondo sembra oscurarsi al crepuscolo, ma io lo racconto come all’inizio, con la mia cantilena che mi tiene in vita, dispensato dai tumulti dell’ora, e risparmiato per il futuro”).
In cerca di una redenzione (“Ma ancora nessuno è riuscito a cantare un epos di pace. Cosa c’è nella pace che alla lunga non entusiasma e non si presta al racconto? devo darmi per vinto? ora? Se mi do per vinto allora l’umanità perderà il suo cantore, e quando l’umanità avrà perso il suo cantore, avrà perso anche l’infanzia”). Sotto la minaccia della modernità (“Non riesco a trovare la Postdamer Platz. No, credo sia qui. Non può essere questa. Non si incontra nessuno a cui poter chiedere”). Il pensiero del poeta vede ancora un senso tra le rovine, per lui non sono già macerie, perché non ha dimenticato. Vuole resistere (“Ma io non mi arrendo finché non avrò trovato la Postdamerplatz. dove sono i miei eroi? Dove siete voi figli miei? Dove stanno i miei? Gli ottusi? Quelli delle origini? Chiamami, oh musa, il povero immortale cantore, che, abbandonato dai mortali suoi uditori, perse la voce, lui che angelo del racconto, è diventato il suonatore d’organetto là fuori, ignorato o deriso, alle soglie della terra di nessuno”).
Anche se la tempesta che chiamiamo progresso spira fortissima e impiglia le ali degli angeli, come Wenders ha imparato da Benjamin e Klee, lui può sostenere un moto contrario. Non quello della reazione, ma piuttosto quello di un ricordo, che accoglie la dispersione e il suo non senso, la plasma in modo nuovo, la fa propria per redimerla. Il film ce lo dice per esempio facendo esplodere le immagini d’archivio della Berlino distrutta, della Berlino scomparsa, dentro al suo elegante movimento tra le vite presenti.
Ma anche assorbendo tutte le lingue della città in una sinfonia cacofonica. O rimuovendo il senso dei colori per poterli vedere di nuovo. Il cinema è forse ancora un bambino greco: per lui conoscere è davvero ricordare. Ma per Wenders (che chiama a fianco a sé Peter Handke) questa infanzia non è del tutto platonica, perché la poesia non deve abbandonare la repubblica. È appunto omerica – in quanto coscienza orale, collettiva, condivisa, sempre fuoco da riaccendere – o forse, propriamente francofortese (non sono i tedeschi rinnovatori della filosofia greca?): se i fascismi estetizzano l’arte, allora occorre politicizzare l’estetica, rendere politica l’arte. Nelle parole finali di Homer, il cantore cieco che vede bene la modernità, c’è ciò che nessun angelo conosce e alcuni registi invece sì: ricordare è la prima forma d’arte politica contro l’apocalisse del senso. Solo così si fonda ciò che resta, si trova forse la perfezione del giorno.
Il film
Il cielo sopra Berlino
Fantasy - Germania/Francia 1987 - durata 130’
Titolo originale: Der Himmel über Berlin
Regia: Wim Wenders
Con Bruno Ganz, Otto Sander, Peter Falk, Solveig Dommartin
Al cinema: Uscita in Italia il 04/11/2019
in streaming: su Apple TV Google Play Movies Amazon Video CG Collection Amazon channel Timvision
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