Dee dee dee dee dee dee dee dee dee dee dee dee dee..., riconoscibile tra tutte, questa introduzione voce-chitarra-percussione è stata la chiave del successo di Mrs. Robinson, l’archetipo della canzone mid-tempo distillata dalle voci morbide e melodiose di Paul Simon e Art Garfunkel. Ma il suo destino si giocherà più avanti nel film di Mike Nichols e tra le braccia della signora Robinson. Per l’incipit di Il laureato, l’autore sceglie The Sound of Silence, definendo un’epoca e creando archetipi eterni: il dandy appena uscito dall’adolescenza e la casalinga intraprendente che seduce ragazzini (Anne Bancroft inventa la figura della cougar).
Annunciatore della contro-cultura e della New Hollywood, quella di Francis Ford Coppola o di Martin Scorsese, di Brian de Palma o di George A. Romero, Il laureato comincia sul volto assorto di Dustin Hoffman, che si mette in moto come un sogno erotico, quello del primo della classe col diploma in tasca, svezzato da una donna più matura la cui figlia diventerà il suo primo amore.
Sulle parole e la musica di Simon e Garfunkel quel sogno prende immediatamente un’altra dimensione, diventando il refrain di un’epoca di liberazione sessuale. Intanto Benjamin Braddock è appena atterrato a Los Angeles e la voce del pilota annuncia la ‘temperatura’ dell’estate e della storia che sta per cominciare...
La storia di un eroe nel bel mezzo di una crisi esistenziale, che sa da dove viene e quello che non vuole - la società dei consumi e il materialismo della generazione passata - ma non sa ancora dove sta andando e cosa desidera veramente. Benjamin Braddock è l’incarnazione di una generazione pronta a disobbedire alla morale dei genitori e a voltare le spalle al successo materiale. Nessuna propaganda ma molta ironia (corrosiva) nel ritratto di Mike Nichols che chiede a Paul Simon di regalargli una canzone per introdurre il suo protagonista, uno studente più insoddisfatto che sovversivo.
Incerto sul domani, amorfo e indifferente a tutto, Dustin Hoffman avanza sul tapis roulant dell’aeroporto di LA, Tarantino renderà omaggio a questa sequenza in Jackie Brown. Doppiato dalla folla, scorre lento e fugge la sua ombra sul “suono del silenzio”. Le parole della canzone rivelano i suoi pensieri, le immagini anticipano un destino segnato, un percorso obbligato a cui è quasi impossibile sfuggire. Una delle repliche più famose del film è tutta in una parola (e in un obiettivo) “plastica”. La pronuncia un dirigente californiano, come suggerimento di carriera durante il party a casa dei suoi genitori, borghesi californiani ciechi e sordi ai cambiamenti politici, sociali e sessuali dell’epoca.
Benjamin Braddock, ambasciatore dell’Ivy look, è un ragazzo di 21 anni alla ricerca della sua strada. Candido, segreto, sognatore, si è appena laureato in una prestigiosa università della costa orientale e adesso scivola verso il futuro che lo angoscia. E il futuro comincia alla fine del nastro trasportatore. Figlio della classe agiata e dell’American Way of Life degli anni Cinquanta, i suoi genitori vivono in una bella villa in un quartiere residenziale, sbarca senza idee a Los Angeles e si lascia portare come la sua valigia. A condurre Benjamin fino a lì sono sempre stati gli eventi. Fino a quel momento, il momento in cui facciamo la sua conoscenza, la sua famiglia ha sempre deciso per lui. Perché questo ragazzo, che ecciterà presto la libido della sua matura vicina, non ha alcuna idea di cosa voglia diventare da grande. Ma è già grande, deve soltanto decidersi ad essere. Al contrario, tutti gli adulti che incontra hanno un’opinione precisa sulla questione.
L’opening credits, due minuti e cinquanta secondi di energia cinetica, installa il punto di vista del personaggio e una domanda: “Chi sono io?”. Il volto di Benjamin si stacca dagli altri ma è parte di quella comunità ‘accomodata’ in cui cerca il suo posto una volta lasciato quello assegnato in cabina. Il pilota ringrazia di averlo avuto a bordo e si augura di ritrovarlo. Ma sappiamo bene che le cose andranno altrimenti. Benjamin finirà la sua corsa contro il sistema in fondo a un bus e accanto alla sposa di un matrimonio interrotto. Bijoux cinematografico, la scena di apertura lascia una traccia profonda che ossessionerà lo spettatore fino alla risoluzione di una vita che cerca la quiete, l’isolamento e il silenzio. Scorre Benjamin, scivolando sul mondo e astraendosi dal mondo come farà più avanti sul fondo della piscina. Fin dalle prime battute fluttua in un universo amniotico e anticipa lo stato di regressione fetale diffuso sul film. Un ritorno a sé che prepara una (ri)nascita, con occhiali da sole neri sul naso e una sigaretta in bocca. Il bravo ragazzo che guardiamo infilare l’uscita dell’aeroporto dentro un abito di flanella grigio e una camicia Oxford bianca, chiusa da una cravatta a righe blu e oro, - l’incarnazione perfetta dell’uomo d’affari dell’East Coast che vuole essere vestito come i suoi simili (Man in the Gray Flannel Suit) - finirà per ‘salpare’ in tenuta nautical jacket. Ma lo sguardo sul futuro resterà lo stesso.
In aereo o in bus, Benjamin ha la stessa paura di sbagliare. Esposti troppo a lungo alle commedie romantiche (e al lieto fine) abbiamo dimenticato che il finale di Il laureato ‘grida muto’ che possiamo sbagliarci, che è veramente facile sbagliarsi, che niente può confermarci che la persona seduta al nostro fianco sia quella giusta...
Benjamin Braddock, faro di una generazione pronta a spingere più avanti i limiti della permissività, è interpretato da Dustin Hoffman, un piccolo ragazzo ebreo che trasloca a New York per seguire i corsi di Lee Strasberg all’Actors Studio. Scovato sul palcoscenico di Off-Broadway, l’attore è uno sconosciuto quando approda sul set di Nichols, che per parlare apertamente di sesso pensa prima a Robert Redford, già diretto nella pièce A piedi nudi nel parco (1963).
Del resto Charles Webb, autore del romanzo omonimo, descrive Benjamin Braddock come un ragazzo biondo, un bell’atleta bianco, anglosassone e protestante, un laureato pieno di sogni e di salute, praticamente l’archetipo del surfer californiano. Ma il regista cambia idea e prende in contropiede il libro, scegliendo Dustin Hoffman al posto di un eroe WASP. Bruno e ‘vergine’, l’attore ha 29 anni ma un aspetto decisamente giovanile e più credibile di Redford nei panni di un ragazzo timido, maldestro e sessualmente inesperto. Una scelta audace quella di un fisico ordinario e opposto ai canoni hollywoodiani degli anni Sessanta ma basta guardarlo al principio del ‘viaggio’ per capire che Nichols ha sempre avuto ragione. Se oggi è naturale vedere attori di ogni provenienza nel ruolo del protagonista, non è stato sempre così. All’epoca, Dustin Hoffman era quello che veniva definito un ‘attore etnico’. Troppo scuro, troppo bruno, troppo ebreo, il suo aspetto lo destinava ai ruoli di giovani e ‘piccoli’ delinquenti. Quando Mike Nichols consegna il copione a Dustin Hoffman, l’attore è il primo a non crederci, non si vede in quel ruolo ‘da gentile’. Ha un problema con il suo fisico. Non tanto la figura, quanto il viso. Soprattutto il naso. Sporgente, diverso, troppo diverso. Una chiara indicazione della sua presunta goffaggine. Due Oscar, cinque Golden Globe e svariati capolavori dopo non lo hanno mai rassicurato, questo divo discreto si considera ancora un errore di casting, un errore del sistema.
Ma in quel mare di teste anonime poggiate come statuine sui sedili dell’aereo, il suo volto è già innescato, è già un fenomeno generazionale. Una figura con cui la gioventù effervescente della fine degli anni Sessanta si identificava. Immobile e assiso su un poggiatesta inamidato e candido era diventato la testa di ponte di una generazione di attori ebrei, la Jew Wave: Barbra Streisand, Woody Allen, Elliott Gould, Richard Dreyfuss, George Segal, James Caan. Il suo fisico, atipico rispetto alle norme del tempo, impose nuovi canoni al cinema americano degli anni Settanta. Senza Hoffman non sarebbero emersi né gli attori afroamericani di quel decennio né quelli italo-americani. Con la modernità del suo ‘gioco’ incarna il ritratto di una generazione asfissiata e oppressa, è un corpo che cerca aria, la via di fuga, l’uscita.
Sotto la sua fronte aggrottata tuona tutta la nuova Hollywood, è il corpo nuovo del maratoneta lanciato contro il ‘vecchio regime’. È Mrs. Robinson (il sesso) contro sua figlia (l’amore), è la malattia della giovinezza e l’ebollizione di un paese più che mai diviso, siamo nel 1967 e le truppe americane sono sempre in Vietnam, le rivolte per i diritti civili infuriano e Sidney Poitier è la vedetta di due film coraggiosi e impegnati (La calda notte dell’ispettore Tibbs e Indovina chi viene a cena?). È in questo clima insurrezionale che esce in sala Il laureato. Il risultato è un grande successo commerciale, una pioggia di Oscar e una nuova star nel firmamento hollywoodiano.
Coi piedi ancorati nel passato e nelle scarpe di Benjamin Braddock, Il laureato assomiglia a una vecchia commedia romantica ma lo spirito, che brucia negli occhi lucidi di Dustin Hoffman, è rivolto verso l’avvenire. Il film si concluderà con una fuga in bus. L’accenno di un road movie, futuro genere emblematico di un cinema contestatario. Un anno più tardi, Dennis Hopper girerà Easy Rider...
Tutto torna, tutto scorre come un tapis roulant e una canzone che canta ostinata nella testa: “Hello darkness, my old friend...”.
Il film
Il laureato
Drammatico - USA 1967 - durata 108’
Titolo originale: The Graduate
Regia: Mike Nichols
Con Anne Bancroft, Dustin Hoffman, Katharine Ross, William Daniels
in streaming: su Apple TV Rakuten TV Microsoft Store MUBI MUBI Amazon Channel Timvision Google Play Movies
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