“Dodici persone chiuse in una stanza. Dodici cuori diversi, dodici cervelli. Dodici modi diversi di vivere. Dodici modi diversi di vedere, di sentire, di pensare. E queste dodici persone devono giudicare un uomo tanto diverso da ognuno di loro, come ognuno di loro è diverso dagli altri. Però il loro giudizio dev’essere unico, unanime. È un miracolo della mente disordinata dell’uomo che possano riuscirci”. È così che, nei minuti finali di Anatomia di un omicidio, il vecchio avvocato irlandese Parnell definisce il verdetto di una giuria. Un miracolo, niente di meno. E in effetti c’è qualcosa di miracoloso nella possibilità che una serie di individui distinti e irrelati riescano a comunicare al punto da prendere una sola decisione. È per certi versi, questo, il miracolo del cinema, medium strutturalmente organizzato per costruire un sentimento condiviso nell’estraneità: al cinema persone chiuse in una stanza, con cuori diversi, cervelli diversi, diversi modi di vivere, vedere, sentire, pensare, guardano delle immagini e provano, a volte, anche solo per un momento, le stesse emozioni.
In Anatomia di un omicidio i segni che mostrano le somiglianze tra il medium del processo giudiziario e il medium cinematografico sono moltissimi, ma solo nel finale sembrano colorati di una fascinazione ottimista per le possibilità della comunicazione. La parola nel film non è mai data ai giurati, perché Otto Preminger non è Sidney Lumet e perché per il regista tedesco la concordia della giuria più che un ammirevole traguardo, o un climax epico difficilmente raggiunto, è un mistero paradossale - “come è possibile che avvenga?” sembra chiedersi attraverso la bocca impastata di Parnell – da considerare senza romanticismi, quasi con sospetto, alla luce di una precisa consapevolezza: il giudizio univoco, unanime e concorde, è frutto di un elaborato spettacolo che poco ha a che fare con la verità. Sia al cinema che in tribunale, come si vede nell’articolato processo al Tenente Mainon, colpevole di aver ucciso un uomo per reazione allo stupro di sua moglie Laura.
Nessuno meglio di Preminger, regista formatosi negli spazi e nel linguaggio della legge, ha colto le rispondenze tra il processo di verifica processuale e il processo di racconto cinematografico come un’occasione per mettere in esplicita scena l’inizio dello sgretolamento della verità. O meglio, l’inizio dello slittamento da un mondo di verità più o meno condivisibili e certe (per intenderci il mondo prebellico che non avrebbe costretto Preminger a fuggire dalla Germania) al mondo di post-verità apertosi, negli Stati Uniti, con la stagione maccartista. Non è un caso che il giudice responsabile di regolare il dibattito tra i due avvocati al centro del film sia interpretato da Joseph N. Welch, avvocato realmente famoso per aver zittito McCarthy: per Preminger il maccartismo è proprio il momento della Storia americana in cui il medium dalla legge, linguaggio idealmente puro vicinissimo a una rappresentazione oggettiva della verità, si è incrinato diventando catalizzatore di sotterfugi e manipolazioni istituzionalizzate.
Le argomentazioni teoriche sullo scollamento tra legge e verità sono tanto frequenti nel film quanto ben dissimulate dal regista, ingenuamente descritto come esecutore eterogeneo degli studios e invece già teorico della convergenza dei media (il suo interesse per la rimediazione delle strutture di esposizione teatrale in un linguaggio di movimento come il cinema si vede nel gruppo di noir che al centro della sua filmografia rappresenta le ambiguità della psiche americana), capace di vedere nella scrittura cinematografica il modo di esporre la dialettica di razionalità e illusione inscritta da poco nel linguaggio legislativo. Si veda a proposito la scena del pranzo a base di uova e sale davanti tra Parnell e Paul, il protagonista interpretato da Jim Stewart, in cui il legalismo del primo convince l’umanismo del secondo ad abbracciare le impurità della legge in favore di un onorario (occorre recuperare a proposito il geniale videosaggio di Christian Keatley Pass the Salt su questa stessa scena).
Ma si consideri soprattutto lo stile del film, che al di là di ogni apparente trasparenza classica si presenta come un tessuto fatto di ripiegamenti e contraddizioni dove ciò che appare piano e razionale nasconde in realtà sempre una sotterranea distorsione. Come nel già citato finale, dove un dolce movimento di macchina e il montaggio invisibile costruiscono la configurazione spaziale e verbale della stanza in cui Paul, Parnell e Maida, la segretaria del primo, attendono il verdetto della giuria.
Nell’attesa logorante l’accorato inno alla miracolosa comunicazione di Parnell è in realtà il commento a seguire delle parole di Maida, che spera di vincere per incassare la cambiale dal cliente imputato. L’innocenza comprerebbe una nuova macchina da scrivere, visto che ora alcune lettere mancano e trasformano le parole – e in effetti che cosa sono le parole se non output di un meccanismo sempre modificabile. A Paul comunque piace l’effetto sgrammaticato piace, e infatti è scorporando ed esibendo il linguaggio impuro (il film fu accusato di oscenità) già contenuto nella formalità del codice giudiziario che ha ottenuto la vittoria.
Mentre tutto contento suona il jazz al piano, lo spazio delle parole pronunciate dai tre personaggi in isolati primi piani si compone infine in un’inquadratura che li contiene tutti e tre: è allora che Parnell chiede a Paul di suonargli qualcosa di più tradizionale di quella “robaccia”, e l’avvocato in tutta risposta ripensa una vecchia canzonetta in stile jazz.
Mentre l’immagine li mette a distanza, trasparenza e distorsione si avvitano in pochi centimetri di inquadratura attraverso le note, che fanno rima con la sperimentale colonna sonora jazz firmata da Duke Ellington: sono il preludio alla scoperta del verdetto d’incolpevolezza e quindi della fuga di Manion e Laura, scappati per non pagare la parcella sulla spinta di un “impulso irresistibile” (la stessa strategica argomentazione con cui la difesa aveva dimostrato l’infermità mentale dell’imputato). Ma anche la dimostrazione matematica, musicale, che al cinema il placido consenso emotivo collettivo nasce da un vuoto dissimulato (un corpo morto che non si vede mai), una ferita impura (la sincope jazz nel ritmo armonico) suturata da un’illusione ben argomentata.
Il film
Anatomia di un omicidio
Drammatico - USA 1959 - durata 160’
Titolo originale: Anatomy of a Murder
Regia: Otto Preminger
Con James Stewart, Lee Remick, Ben Gazzara, George C. Scott, Arthur O'Connell, Eve Arden
in streaming: su Apple TV Google Play Movies Rakuten TV Amazon Video Timvision Amazon Prime Video
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