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Perfect Days

Regia di Wim Wenders vedi scheda film

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La recensione su Perfect Days

di Peppe Comune
8 stelle

Hirayama (Koji Yakusho) lavora come uomo delle pulizie ai bagni pubblici di Tokyo. Tutti i giorni gira con il suo furgoncino per diversi punti della città accompagnato dalle sue amate canzoni rock che ascolta in vecchie musicassette. Coltiva la passione per i libri e ama fotografare gli alberi, va spesso ai bagni pubblici a rigenerarsi, mangia sempre agli stessi posti dove le persone che lo conoscono neanche gli chiedono cosa ordinare e quando torna a casa si preoccupa prima di tutto di preparare il lavoro per il giorno dopo. Insomma, sembra una vita monotona a quella di Hirayama, eppure è piena di quella serenità che si sceglie di coltivare rinunciando alle cose superflue per dedicarsi solo a quelle che veramente appassionano. Fino all'arrivo della giovane nipote (Arisa Nakano) che rompe i suoi rituali consolidati lasciando riaffiorare qualche ombra dal suo incerto passato. 

 

Koji Yakusho

Perfect Days (2023): Koji Yakusho

 

Con “Perfect Days”, Wim Wenders ritorna a quei toni elegiaci che avevano caratterizzato i primi anni della sua produzione cinematografica, con film che lasciavano al potere evocativo dei silenzi tutto il tempo di farsi narrazione per immagini, che usavano la gestione del tempo e l'organizzazione scenica degli spazi per generare una relazione simpatetica tra i personaggi e la ricercata caratterizzazione d'ambiente. Wenders ha spesso concepito il transitare dei suoi personaggi dentro e fuori gli spazi urbani come a dei viaggi che, prima di condurli fisicamente verso un altrove più o meno definito, sono orientati a proiettarne il mondo interiore, la loro indole meditabonda e i loro silenzi che sanno di mistero. 

Partendo da questi assunti poetici, Hirayama sembra rappresentarne quasi l’ideale compendio, e forse non è un caso che a culmine di una lunga carriere sia arrivato un film che, per sviluppo narrativo, luogo d'ambientazione e caratterizzazione del personaggio, fa emergere un chiaro omaggio a Yasujiro Ozu, dichiarato nume tutelare dell'autore tedesco. 

“Perfect Days” procede seguendo un ritmo che fa della ripetizione delle azioni di Hirayama il suo unico elemento catalizzatore, qualcosa di veramente diverso succede solo nel finale del film, quando capiamo qualcosa (ma non è affatto sicuro) della vita dell'uomo con l'arrivo della nipote adolescente. Con la nipote ha un tenero rapporto di complicità, evidentemente nato da precedenti e intensi rapporti di relazione. Sicuramente non ha buoni rapporti con la sorella. Forse ha lasciato un'esistenza agiata per viverne una più modesta. C’è da supporre che la sua serenità di spirito sia arrivata a seguito di rinunce più o meno dolorose. Questo è quanto può emergere dalle parole in libertà vigilata dell'uomo e dal desiderio di ricevere attenzioni sincere della ragazza.  

Tutto il resto fotografa la reiterata ordinarietà di Hirayama, che scandisce le sue giornate facendole somigliare ad una liturgia che occorre ripetere sempre uguale e che sembra vivere il lavoro che fa come un rituale da dover tramandare ai posteri. Quanto basta per fare di “Perfect Days” un film che mette al centro della storia il valore etico della lentezza, che con calcolata precisione scenografica e tramite il resoconto esistenziale di un "uomo qualunque" come Hirayama assume il ruolo di antidoto contro ogni germe antisociale. 

Tokyo è forse l’unica megalopoli al mondo che poteva fare da scenario al passo in cerca di beatitudine di Hirayama, alla sua gentilezza che non elemosina compagnia. Nonostante il suo vitalismo urbano, i suoi assi viari che si intersecano l'un l'altro come le scale di Escher e la moltitudine di persone che si muovono come scaglie impazzite. Le forma della città sembrano fare da cornice elegiaca a tutto ciò che in esso vi accade, indirizzando lo sguardo verso un modo più pacificato di convivere con l’inevitabilità del caos cittadino. Detto altrimenti, a Tokyo la vita della città sembra adeguarsi con estrema naturalezza alla compostezza dei suoi cittadini e come sapeva fare il maestro Ozu, anche Wim Wenders è bravo a fare di questa evidenza caratteriale della città un tratto stilistico che aiuta il film a dire molto di più di quello che lascerebbe supporre il suo modo di agire per sottrazione. 

Hirayama mostra di amare la vita che fa semplicemente perché è la vita che ha scelto di fare in relazione alla piena disponibilità dei suoi voleri e delle sue passioni. I suoi giorni perfetti sono quelli in cui è totalmente padrone del suo tempo, quelli in cui può organizzare ogni cosa pensando alle abitudini come a degli amici che non tradiscono mai la fiducia data. C’è un’intera esistenza in quelle abitudini, fatte di più cose che si ripetono con canonica precisione, e se queste abitudini sono vissute da Hirayama con una partecipazione anche maniacale, evidentemente è perché sente l'urgenza di affidare ad ognuna di loro un pezzo di gratitudine che, nonostante tutto, conserva per la vita. 

C’è il lavoro come inserviente dei bagni pubblici (e che bagni, aggiungo), svolto con una devozione che assomma senso civico e senso del dovere vissuti con tutta la serietà del caso. La cura per gli attrezzi da lavoro, lo spirito di servizio, la puntualità delle consegne, lo rendono l’operaio capace di nobilitare il lavoro praticandolo con inusitata gentilezza.   

Ci sono le sue canzoni (tra cui, ovviamente, la bellissima "Perfect day" di David Bowie), rigorosamente degli anni 60-70, rigorosamente in inglese e rigorosamente ascoltate in auto da vecchie musicassette. Canzoni che sono come un ponte che attraversa il tempo e lo spazio per rimanere ad essere la colonna sonora di un’intera esistenza. 

C’è la passione per la fotografia, rigorosamente analogica, con la predilezione a fotografare alberi bloccati nel loro divenire. Istantanee rubate alla vita che messe in successione danno il senso di come Hirayama consideri la lentezza un bene troppo prezioso per lasciare che le cose che abitano il mondo non si prendano tutto il tempo che gli occorre per essere quello che è più giusto che siano.  

C'è la passione per i libri, vissuta con l’umiltà di chi attribuisce al sapere un impareggiabile valore spirituale. 

Ci sono poi le stesse persone che vede ogni giorno, sul luogo di lavoro, al parco, ai bagni pubblici, alla tavola calda, con le quali scambia le poche parole necessarie, la gentilezza degli sguardi, la disponibilità all’ascolto e qualche affetto lasciato a sperare.  

Ecco, per le persone come Hirayama la lentezza è come un vestito che si indossa per sottrarsi ai richiami delle necessità indotte e per non rischiare di perdersi nel vortice della anaffettività dilagante. In un mondo che va veloce e che impone dei ritmi che non tutti riescono a reggere, con i suoi comportamenti così scrupolosamente ligi al dovere, Hirayama incarna l’esatta idea di cosa voglia dire oggi recuperare il valore etico della lentezza, che non indica affatto il “perdere tempo” o il “prendersela comoda”, ma semplicemente il ribadire che per fare una cosa per bene ci vuole il tempo che ci vuole. 

Molto emblematica è la parte del film in cui il collaboratore di Hirayama si licenzia e prima che arrivi il sostituto è costretto a coprire due turni. Al dovere di svolgere bene il suo lavoro si sostituisce la necessità di doverlo fare e basta. Per due giorni circa Hirayama perde la sua beata serenità semplicemente perché il tempo non gli basta per svolgere il suo lavoro con la solita scrupolosità e a coltivare le sue passioni. Entra in quel tipico corto circuito in virtù del quale la piena disponibilità del tempo viene tolta a chi ne dovrebbe essere l'unico proprietario. Hirayama perde contatto con le sue coordinate e per qualche giorno mette in ombra la serenità di spirito che è il bene che ha scelto di mettere sopra ogni altra cosa. 

Solo rimanendo padroni del proprio tempo e dando ad ogni azione il tempo che ci vuole per compiersi come si deve si può ambire a una vita felice. Mi sembra questo il messaggio (neanche troppo sottinteso direi) che emerge da “Perfect Days”, un buon film che dopo qualche anno caratterizzato da una certa discontinuità produttiva si allinea decisamente alla migliore filmografia di Wim Wenders. 

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