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A Murder at the End of the World

1 stagioni - 7 episodi vedi scheda serie

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La recensione su A Murder at the End of the World

di mck
7 stelle

“Il colpevole è sempre il mgaigoromdo” in versione 2.0, ovvero: “Macchine che sbuffano nel buio.”

 

Il Tallone da Killer di “A Murder at the End of the World” è rappresentato dal fatto che la coppia artistica (Sound of My Voice, the East, the OA) formata da Brit Marling (Another Earth, I Origins) & Zal Batmanglij – i quali anche in questo caso, come spesso accade, si dividono equamente sia gli script [collaborando in un paio di casi con la sceneggiatrice e drammaturga Melanie Marnich (Big Love, the Big C, the Affair, the OA) e con la scrittrice di SF e fantasy Rebecca Roanhorse] che le regìe dei 7 episodi (dalla durata variabile compresa fra i 40 e i 70 minuti), 3 l’una e 4 l’altro – riesce sempre a mettere più sostanza sul piatto delle cose interessanti e sfiziose (argomenti e tematiche, interpretazioni e tecnicità, stilemi e atmosfere, “l’impressionante aumento dei suicidi tra i climatologi nati prima del 1970” e “i modi in cui l’ho lasciato prima che lui lasciasse me”) rispetto a quanta finisce per accumularsi, volenti o nolenti, su quello del “No, quello no, dai!”, mentre il Tallone d’Achille, in questo caso, tralasciando la questione su quanto (tanto) il colpevole sia “sgamabile”, per mancanza d’alternative valide, troppo presto (ed è, ebbene sì, “come sempre”, il mgaigoromdo), è quella venatura carsica costituita d’ingenuità non comprensibili che disattivano la sospensione dell’incredulità, ad esempio: la protagonista, dal suo PDV empaticamente e strutturalmente attendibile, prima sfotte amabilmente i casi di morte per GPS (explanation for dummies: una voce meccanica che ordina una svolta a destra e un’automobile che finisce in una scarpata ribaltandosi e prendendo fuoco: la quintessenza dei Darwin Awards) e poi fa porre allo stesso personaggio, con un character twist allucinante, una domanda idiota all’I.A. di turno, una delle tante “macchine che sbuffano nel buio” che permeano lo zeitgeist, del tipo “I destrimani che si praticano le iniezioni da soli di solito se le fanno sul braccio destro?”, con l’I.A. che invece di sfancularla le risponde seriamente, come del resto è programmata per fare: “Raramente, se non mai. Il braccio non dominante è il sito di iniezione a un tasso del 98%”. Insomma: tutti i pregi e tutti i difetti che già erano riscontrabili in quel progetto mozzato sul compiersi (non è stato rinnovato, vale a dire è stato cancellato, da Netflix dopo la 2ª stagione) che porta(va) il titolo di the OA sono riproposti paro paro qui: prendere (ma cum grano salis) o lasciare (e forse sarebbe un peccato).

 

 

“Li pubblicizzano come mini-computer, cosa che sono… Non sono più dei telefoni, non è per quello che li usiamo… Non li avremmo accettati così facilmente... Se guardi le foto dei cinema degli anni ‘40 fumano tutti, proprio tutti: c’è un’enorme nuvola di fumo sopra alla gente. Le guardi adesso e pensi “Cazzo, fa schifo!”, ma se scatti una foto ora tutti sono attaccati al telefono, ed è la stessa dipendenza, anzi è peggio: almeno con una sigaretta distruggi lentamente i tuoi polmoni, ma sei ancora te stesso… Con questi ci stiamo perdendo. Li odio.”

Il cast(ing), per quanto “mediamente sopra alla media” e se pur organizzato dalla grande Avy Kaufman (un titolo su tutti, fra i più recenti: TÁR), è in linea col resto della produzione: Emma Corrin (Diana Spencer in “the Crown”, la moglie del poliziotto in “My Policeman” e Anna/Lucy nel prossimo “Nosferatu” di Robert Eggers), la protagonista, ad esempio ha sì un’indole recitativa molto intensa, e in generale è parimenti molto, molto brava, ma al contempo esprime quasi continuamente, verso il proprio interlocutore, quello sguardo, quell’espressione da “Sì, capisco cosa stai dicendo, ed è una rivelazione, un’epifania!”, e invece no, spesso e volentieri quello sguardo è solo uno sguardo del tutto gratuito che non sottende nient’altro che quello sguardo del tutto gratuito stesso. E poi accanto a lei, oltre alla stessa Brit Marling: Clive Owen, Harris Dickinson, Joan Chen, Alice Braga, Louis Cancelmi, Javed Khan, Raúl Esparza, Edoardo Ballerini, Pegah Ferydoni, Daniel Olson, Christopher Gurr, Neal Huff, etc…

Fotografia di Charlotte Bruus Christensen (“A Quiet Place”) e musiche di Danny Bensi & Saunder Jurriaans ("Two Gates of Sleep", "Martha Marcy May Marlene", "Enemy", "the One I Love", "the OA", "the Discovery", "On Becoming a God", "the Outsider", "the Devil All the Time", "Outer Range", "Night Sky", "Somebody I Used to Know"), con incursioni di the Doors (the End), Annie Lennox, Portishead (Glory Box e Roads), Tricky e Young Jesus (the Weasel). Location islandesi. Produce FX e distribuisce Hulu.

“Perché costruire un ponte levatoio per il castello, quando siamo già nella sala del trono?


* * * (¼) - 6.25  

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