1 stagioni - 8 episodi vedi scheda serie
Skippa!
Poche sono le cose impossibili a questo mondo. Una di esse è il riuscire ad ascoltare un’intera facciata di un LP a caso degli Scorpions o mezza (o anche meno) dei Coldplay senza dare di matto. Ecco, “1899” è così: pedante, pedissequa e pleonastica (e mi sono limitato alla “p”, così, senza manco averne esaurite le possibilità) per la maggior parte del tempo (certamente insopportabile questa tendenza nella minestra riscaldata ch’è la prima metà di serie, vale a dire per i primi 4 episodi degli 8 totali, nella quale la Cerbero (il mastino a tre teste a guardia degli inferi), in compagnia della Prometeo (il titano che rubò il segreto del fuoco agli déi per regalarlo agli esseri umani), imbarca acqua divenendo una brodaglia allungata all’inverosimile non solo e non tanto per via dei flash-back à la “Lost” quanto piuttosto per i momenti che vorrebbero essere di “tensione” mista a “suspense” e invece sembrano mini-puntate di Capitan Tsubasa (Holly & Benji) condensate in una scena o in uno scambio di battute in campo-controcampo (sia benedetta la funzione “skip +10 sec.)”, mentre nella seconda metà le cose migliorano leggermente, per altri versi, ma non troppo, dato che il tutto si rivela essere - per rimanere in campo metaforico culinario (del resto i passeggeri in stasi dell’anno 1899 + CC dovranno pur mangiare, no?) - una cakeata priva di lievito e zucchero costruita per sostenere un’unica ciliegia glassata presa da una confezione industriale da 5 litri che ti manda in crisi iperglicemica), un riciclo del già letto, visto e sentito (come se da alcuni Blu-Ray di “2001: a Space Odyssey”, “the Shining”, “BattleStar Galactica” [qui, extradiegeticamente, vale a dire con intervento rivolto ai soli spettatori, c’è (nella versione originale alla fine del pilot e sui titoli di testa di ogni restante episodio in quella di Eliot Sumner, figlia di Sting e Trudie Styler) “White Rabbit” dei Jefferson AirPlane - e poi Deep Purple, Echo & the BunnyMen, Blue Öyster Cult, Black Sabbath, the Jimi Hendrix Experience e Cat Stevens aka Yusuf, per finire con la “StarMan” di David Bowie - “al posto” della “All Along the WatchTower” di Bob Dylan, che svolgeva anche funzione di motore diegetico all’interno della narrazione in relazione coi personaggi) e, più pertinentemente (senza contare le varie versioni dei vari ponti ologrammi dei vari “Star Trek”: e comunque le Cetonia aurata ssp. non zampettano veloci a quel modo nella realtà, e non dovrebbero farlo nemmeno in una simulazione), di “Virtuality”, sempre del Ronald D. Moore di “BsG”, e sempre che ne abbiano stampati - anche se poi, a parte tutto, non si capisce perché debbano essere riciclati, ma va beh -, se ne cavassero fuori i tubetti estrusi in policarbonato delle penne a sfera attraverso cui Jantje Friese e la sua squadra di co-sceneggiatori prenderanno appunti per stendere il copione di ‘sta cosa messa in scena dal di lei partner lavorativo e sentimentale Baran bo Odar, col quale ha creato “Dark”), sembra scritta da un bimbominkietta delle mediuglie che, durante l’ora del compito in classe di italiano mentre fuori dalla finestra piove sugli alti pini del cortile interno, con la testa appoggiata di lato nell’incavo del braccio sinistro posato ad angolo sul banco di scuola, scarabocchia qualcosa di malavoglia tenendo la penna bic nella mano destra che lotta assieme alle palpebre per non cedere alle sane pretese del figlio di Ipno e di Notte… E mi ricorda, in effetti, per i tanti Ma Che Kazzo della trama (trama?), un tema che scrissi in prima media andando fuori tema e che, oltretutto, la prof C**a**i mi accusò di aver copiato. E da dove avrei copiato?, le chiesi. Non lo so, ma per me hai copiato, rispose, algida e giunonica, consegnandomi le 4 facciate di fogli a righe con un inappellabile (e pilatesco) 6-- scritto in rosso alla fine dell’ultima pagina, nient’altro che un compromesso fra “Non ho le prove” e “Però hai copiato bene” (immagino fu uno dei miei primi contatti con la regola d'oro che governa lo mondo tutto, ovvero il sacro motto del "Lascia perdere, ché non ne vale la pena!"). Spoiler: non avevo copiato, e la professoressa tutto sommato non era male come insegnante, ma come soggetto il mio “Nella Regione del Lupo” di allora - mi ricordo solo il titolo, e il fatto che c’entrassero anche dei brachiosauri e, forse, due combattivi scoiattoli - a questo “1899” gli fa vedere la polvere. Per inciso: prima o poi, un giorno o l’altro, giuro a me stesso che assisterò anche alla seconda e alla terza stagione di “Dark”…
Un colpo di scena a caso di “1899” regala allo spettatore mediamente smaliziato lo stesso annichilente stupore e il medesimo epifanico sconcerto che la scena della scoperta del fuorigioco da parte di Holly/Tsubasa avrebbe potuto profondere al Franco Baresi del 1989 (o di qualsiasi altro anno post-1960) o a quello, sempre sotto l’egida Sacchi, della finale Italia-Brasile del 1994 al Rose Bowl di Pasadena. Same vibes…
Nel discreto cast, guidato dalla brava Emily Beecham di “Daphne” e composto da Andreas Pietschmann (“Dark”), Clara Rosager (“the Rain”), Maria Erwolter (“the Ritual”), José Pimentão, Mathilde Ollivier, Isabella Wei, eccetera eccetera, spicca Anton Lesser, il Qyburn di “Game of Thrones”.
Fotografia di Nikolaus Summerer (“1899” è stata girata quasi interamente in studio, a Potsdam) e musiche di Ben Frost (“Sleeping Beauty”, “Super Dark Times”), entrambi già al lavoro in/con/su/per “Dark”.
Ad oggi (22/11/‘22) su IMDb con circa 22.250 votanti “1899” ha raggiunto un’improbabile media di 7.9…
Molto da * * ¾ e poco da * * * (¼), quindi 6, ma meno meno! (Ho come un déjà vu.)
Posso già dire, però, che prima poi, un giorno o l’altro, giuro a me stesso, assisterò (è pur sempre SF "hard") anche alla seconda e alla terza stagione di “1899”… (Aridaje coi déjà vu.)
"What is lost will be found", recita la tagline. Vero, ma, se ciò vale per (alcuni) ricordi, non vale per il tempo e - come insegnano Rezza, Mastrella e Di Gesù - per i soldi.
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