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Roar

1 stagioni - 8 episodi vedi scheda serie

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La recensione su Roar

di mck
9 stelle

Si ride, si piange, ci si arrabbia e si pensa. Però!

 

 

ROAR” (che non è un acronimo di senso compiuto, ma la traslitterazione onomatopeica di un ruggito*), la serie antologica (come “MonsterLand” di Mary Laws da Nathan Ballingrud per Hulu e “the Romanoffs” di Mattew Weiner per Amazon: sicuramente migliore della prima e certamente quasi, e dico quasi, ai livelli della seconda) in 8 episodi da mezz’ora circa l’uno creata e showrunnerizzata per Apple (no, non m'è venuta voglia di comprare un iPhone) da Liz Flahive & Carly Mensch adattando meravigliosamente altrettanti racconti pescandoli dall’omonima raccolta contenentine 30 (c’è quindi spazio per almeno un altro paio di annate, se non tre) di Cecelia Ahern (asciugandoli di qualsiasi parvenza di eccedente ed eccessivo sentimentalismo finalizzato ad esprimere sé stesso che probabilmente innervavano la scrittura dell’autrice di “P.S. I Love You”) dopo che Netflix aveva cancellato loro “GLOW” (Gorgeous Ladies of Wrestling) alla fine della terza stagione giustificando l’operazione con la scusante della pandemia influenzale (ed è anche un’occasione per Alison Brie e Betty Gilpin di rifarsi, in parte, del maltolto in campo seriale tornando a collaborare nuovamente con le due architettrici di mondi), è un generoso concentrato di rappresentazioni dell’espressione idiomatica “lieto fine”**, con tutte le sfumature del caso, atte a non rendere ogni “happy end” troppo esageratamente smaccato: un toccasana mediatico per la petulante morìa occidentale, oramai cosmopolita (non “fisica”, e nemmeno principalmente dal PdV “morale”, quanto piuttosto da quello intellettuale e, soprattutto, intellettivo), che caratterizza questo scorcio storico post (ah-ah) globale.

* Quello con Betty Gilpin è il quasi solo frangente (un’altra occasione, anche se in minore, è data in dote ad Alison Brie) in cui il ruggito trova concreta esplicitazione glottologica - peraltro in uno dei contesti fra i più metaforici - venendo letteralmente pronunciato potente, messo a preannuncio di quel che di lì a poco accadrà, ovvero la trasformazione dell’episodio in autentico momento di musical alleniano (o morettiano) grazie al taglio delle inquadrature, all’utilizzo di carrellate e zoom e alla scelta delle musiche: la versione dello standard “Song of the Wanderer (Where Shall I Go?)” realizzata da Matty Matlock & the Paducah Patrol e contenuta in “They Made It Twice As Nice As Paradise And They Called It Dixieland” del 1959

** Quello con Alison Brie è il lieto fine al contempo più magicamente luminoso e felice e - no spoiler - paradossalmente concreto (sempre con un po’ di rassegnato stupore di fronte all’incapacità umana di operare una piena empatia con l’altro da sé, o con sé stessi, ripensando all’ep. con Betty Gilpin, che non a caso si conclude sulle note e la voce della “Whistle for Happiness” di Peggy Lee) perché è - e nonostante il fatto sia - dicotomicamente & antinomicamente nato da una tragedia irrimediabile e irrisolvibile. 

 

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Non è che, per dirla con Zygmunt quell’altro, cioè Bauman, è “Meglio Essere Felici”, grazie tante (ma pure quella può essere una cura, eh: il decidere che i problemi superabili, e pure parte di quelli insuperabili, problemi non sono), no, è che “ROAR” è proprio un percorso di accettazione e riscossa, di affermazione e rivalsa, ovvero, insomma, quindi: belle storie che fanno bene. Ed è scritta (oltre che dalla coppia Liz Flahive & Carly Mensch anche da Janine Nabers, Halley Feiffer e Vera Santamaria), interpretata [di Alison Brie e Betty Gilpin s’è in parte già scritto. Aggiungo: magnifiche. E con loro sul podio, allora, se classifica dev’essere, Merrit Wever (Studio 60 on the Sunset Strip, Nurse Jackie, Greenberg, Birdman, Meadowland, Godless, Unbelievable, Marriage Story, Run) e Judy Davis, e poi Nicole Kidman (anche produttrice esecutiva), Issa Rae, Cynthia Erivo (the Outsider), Meera Syal e le più giovani, ma ottimamente utilizzate e dirette, Fivel Stewart e Kara Hayward. A chiudere, i maschietti: Alfred Molina, Jake Johnson, Bernard White, Simon Baker, Griffin Matthews, P.J. Byrne, Daniel Dae Kim, Hugh Dancy, Christopher Lowell e la voce di Justin Kirk...], girata [benissimo, oltre che dalla stessa Liz Flahive, da So Yong Kim, Channing Godfrey Peoples, Kim Gehrig, Rashida Jones, Anya Adams e Quyen Tran, anche direttore della fotografia assieme al grande Christopher Manley (“Mad Men”) e a Sam Chiplin] e musicata… [la colonna sonora originale è di Isobel (sorella di Phoebe) Waller-Bridge (ogni novella cinematografica principia accompagnando la breve sigla stilizzata di testa con le note della sua potente “the Girl Who Loved Horses”, che troverà poi lapalissiana messa a dimora definitiva una volta inserita a metà dell’ottava ed ultima, omonima traccia filmografica a chiusura di questo si spera, auspica e pretende primo arco narrativo), mentre la supervisione dedicata alle canzoni preesistenti è del grande Bruce Gilbert – fedele della Jenji Kohan produttrice esecutiva di “GLOW” oltre che artefice di “Weeds” e “Orange Is the New Black” – e da Lauren Marie Mikus] …da Dio.

 

Indice. 

Letteralmente: The Woman Who... Disappeared [in pratica una reinterpretazione di "Invisible Man" (1952) di Ralph Waldo Ellison]; ...Ate Photographs; ...Was Kept on a Shelf; ...Found Bite Marks on Her Skin; ...Solved Her Own Murder; ...Returned Her Husband.

Metaforicamente (sentimentalmente) e "letteralmente" (sessualmente): The Woman Who... Was Fed By a Duck.

Metaforicamente: The Girl Who... Loved Horses.

 

Questo invece è il pene di un germano reale: https://www.ilpost.it/2017/09/22/anatre-dimensioni-pene/.

 


Si ride, si piange, ci si arrabbia e si pensa. Però!

 

* * * * ¼ - 8.25       

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