2 stagioni - 9 episodi vedi scheda serie
Dietro le quinte di storie che sono sfociate in un successo planetario, un evento che negli ultimi anni ha visto susseguirsi parecchi cavalli di razza (nel settore, li chiamano unicorni), esistono/sussistono pieghe/piaghe che non finiscono – almeno non subito – sotto i riflettori. Svolte essenziali, comportamenti disdicevoli e vicissitudini ignote, che contengono molteplici temi ad ampio raggio d’azione e ripercussioni che meritano di essere affrontante e scartabellate, per come sono pregne di significati e di evoluzioni degne di menzione. Un materiale torrenziale che, a seconda di come venga raggruppato/disposto/dissezionato, può fornire diversi spunti di riflessione, per un immaginario faraonico da scandagliare/scartavetrare.
Ebbene, la prima stagione di Super pumped (da tempo si vocifera di una seconda dedicata a Facebook ma tutt’ora non vi è ancora niente di concreto) si occupa dell’ascesa di Uber ma soprattutto dell’artefice di questa mirabolante rivoluzione, di un personaggio controverso e a dir poco machiavellico. Una stagione attrezzata con una notevole energia cinetica, dai tempi di reazione furiosi e una forsennata tabella di marcia, tra punto di ingresso e di caduta (nel mezzo vi sono una caterva di smottamenti/ assestamenti), con parecchio materiale da condividere e modalità d’ingaggio che assumono la loro effettiva consistenza alla distanza.
Quando si sente pronto per fare il definitivo salto di qualità, Travis Kalanick (Joseph Gordon-Levitt – The walk, 50 & 50), il Ceo di Uber, chiede un importante supporto economico al facoltoso Bill Gurley (Kyle Chandler – Super 8, Manchester by the sea).
Da questo momento in poi, la sua società brucia le tappe, conquista una città americana dopo l’altra e si appresta a espandersi nel mondo, con l’ausilio della fidata Austin Geidt (Kerry Bishé – Halt and catch fire, Il ricatto) e di Emil Michael (Babak Tafti – Billions, Succession), il suo braccio destro voluto da Bill.
Mentre la scalata pare non conoscere battute d’arresto, emergono delle frizioni con il resto del management, per non parlare dei rapporti con altre multinazionali (vedi Apple), così che Travis avrà bisogno di un sostegno esterno, che individua in Arianna Huffington (Uma Thurman – Kill Bill, Gattaca).
Nonostante il quadro generale continui a complicarsi, Travis va dritto per la sua strada, senza arretrare di un centimetro nella sua logica espansionistica, neanche quando sembra che la situazione sia sul punto di andare a rotoli e che nel privato avvengano altri moti tellurici, ad esempio con quanto capita a sua madre (Elisabeth Shue – Via da Las Vegas, The Boys).
Tutto si può dire di questa prima stagione di Super Pumped prodotta da Showtime ma non che sia sterile e conservativa. Creata da Brian Koppelman (Billions, La giuria) e David Levien, collaboratori di lunga data, salta brutalmente i preliminari ed entra subito nel vivo della scalata, con un’impronta tarantolata à la Adam McKay.
Dunque, attua un dispositivo che ama andare su di giri e giocare di anticipo, che nei primi episodi s’incarta in una processione di round piuttosto meccanici nel loro sviluppo compulsivo, per poi migliorare improvvisamente quando il focus si sposta sulle magagne e i nodi da districare iniziano a venire al pettine.
Sostanzialmente, dal terzo episodio in poi, la stagione acquista continuità, le anime in subbuglio prendono il sopravvento e i confronti/scontri diventano sempre più numerosi/interessanti/acerrimi, con alcuni approfondimenti confezionati con encomiabile pertinenza e grinta, ad esempio quando Travis deve fronteggiare l’arringa del Ceo di Apple.
Più in generale, le tematiche contemporanee si fanno sentire (le discriminazioni sessuali e la smania di conquista che non conosce/capisce/concepisce i limiti che il buon senso auspicherebbe), mentre le considerazioni su ciò che sia giusto o sbagliato implodono, con una corsa a ostacoli che procede a getto continuo, tra colli di bottiglia e scelte azzardate, conigli dal cilindro e cortocircuiti fragorosi.
Per giunta, questo quadrante viene scandito da una colonna sonora galvanizzante, di stampo pure rock, che rovista in lungo e in largo il catalogo dei Pearl Jam per poi aggiungere varie rarità (come la cover dei R.e.m. di First we take Manhattan) e altri pezzi dal grande impatto sonoro (tra i tanti, Judas Priest – Breaking the law), un accompagnamento indicato, che aizza il ritmo.
Per ultimo, non certo in quanto incidenza, su ogni parametro considerabile si innalza l’interpretazione di Joseph Gordon-Levitt, qui quanto mai versatile (anche se in tal senso ha dato ancora di più nella misconosciuta Mr. Corman), superlativo per i vezzi e le sottigliezze che sprigiona, con quei sorrisi stropicciati, degni di un uomo falso come Giuda, e una tranquillità luciferina, che aggregati creano sgomento, tipici di chi non si arrende neanche quando il danno è irreparabile e il torto è appurato con assoluta evidenza. Contestualmente, Kyle Chandler fornisce un contraltare dalla presenza funzionale e consono per pacatezza, mentre Uma Thurman aggiunge ulteriori fattori competitivi.
In parole povere, Super Pumped è un prodotto consapevolmente propulsivo, un tour de force che non si prende mezza pausa fino a quando arriva a destinazione, perfettamente intonato con i nostri tempi, nei quali non ci si ferma mai e non si guarda in faccia a nessuno pur di portare a casa l’intera posta in palio, poiché conta solo il risultato finale, ossia la vittoria, meglio se schiacciante/sprezzante.
Una serie che si rilancia senza sosta e che implementa il suo potenziale, con svariati supporti intelligenti/efficaci (ad esempio, Bridget Cao e Annie Chang irradiano lo schermo), affermandosi per come riesce a stare sempre sul pezzo.
Tra successi eclatanti e scompensi palesi, spallate vigorose e ostruzionismi evidenti, raggiri e resistenze, benefici e controversie, predatori accaniti e soggetti sacrificabili, stravolgimenti delle abitudini e strategie spregiudicate, ambizioni smisurate ed effetti collaterali, una gioventù ruspante e uno status quo che tenta di apporre dei freni, accordi violati e tirate di orecchie, per una partita a scacchi che non prende minimamente in considerazione l’ipotesi del pareggio, per quanto i ricchi – si sa come gira il mondo - cadano sempre in piedi.
Ubriacante e incisivo, lesto e impulsivo.
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