3 stagioni - 14 episodi vedi scheda serie
Il lungo week-end delle salme.
I.
MicroCosmo.
“The White Lotus: Sicily” non è il remake, il reboot o il restart di “Hawaii”, è solo il mondo (antologizzato) che gira sempre per lo stesso (non-)senso e (in-)verso (antiorario, per convenzione).
Possibili comparazioni psico-comportamentali e geometrico-famigliar-lavorativo-classiste (che lasciano il tempo che trovano).
Aubrey Plaza e Meghann Fahy, da una parte, e Sabrina Impacciatore, dall’altra, impersonano una bi/tri-forcazione del personaggio interpretato da Alexandra Daddario.
Simona Tabasco e Beatrice Grannò sono l’evoluzione libertaria e liberata tanto di Sydney Sweeney & Brittany O’Grady quanto di Natasha Rothwell & Jolene Purdy.
Haley Lu Richardson è la controparte più in pericolo (Leo Woodall) e al contempo più fortunata di Kekoa Scott Kekuman.
Tom Hollander NON è Murray Bartlett (ma è altrettanto bravo).
Michael Imperioli (e Laura Dern) in modo classico rappresentano alcune dinamiche proincipali sviluppatesi fra Steve Zahn e Connie Britton.
Jennifer Coolidge e Jon Gries, invece, fanno (momento →) Jennifer [SPOILER] Coolidge (← epocale) e Jon Gries (con duplice sorpresa).
Attori tutti ottimi, dal più che buono all'eccellente.
II.
“Please! These gays… they’re trying to murder me!”
E comunque: più cadaveri!
- “Rocco, quanti altri ospiti morti ci sono?”
- “Mah, non lo so… Un po’?”
Per quanto di chi siano “gli altri” cadaveri del prologo inoltrato lo si capisce già a molti episodi dalla fine, e di chi sia “il” cadavere direttamente/personalmente incontrato da Daphne nel prologo incipiente lo si intuisca prima che (ac-)cada (oltre che al "colpo di scena" ordito da Lucia (Simona Tabasco) ai danni di "omissis"), “the White Lotus: Sicily” riesce a fare veramente paura: non è il cosa, e nemmeno il come, ma tutto il contorno etico-morale (“iper”-violento) di quel cosa.
III.
Ipse Dixit.
“The White Lotus: Sicily”, ma pure “Hawaii”, “Maldive”, “Bali”, “Miami”, “l’Havana”, “Malindi” e “Civitavecchia” è riassumibile da questa tag-line, il convitato di pietra di “Hawaii” finalmente esplicitatosi didascalicamente in “Sicily”: “Non capisco perché continuino a darci questi menù, oramai li conosciamo anche alla rovescia.”
E io non capisco perché la sera non te ne vai a mangiare fuori dal “White Lotus”, minchione d’uno scimunito. Uno potrebbe pensare: “So’ ammeregani!”, peccato che di italiani che passano una o due (due??? Ma pure: una???) settimana a Sharm-El-Sheikh chiusi in un bunker/compound “fuori dal mondo” senza aver visto-toccato-gustato un solo centimetro quadrato di Sinai ne conosciamo tutti… E coerente e sintomatico è il fatto che fra i pochi a godersi la gastronomia esterna al resort siano i personaggi middle-lower class di Jack (Leo Woodall) e Portia (Haley Lu Richardson), col primo che fa "evadere" la seconda. (A latere: ma è mai possibile che, buoni o cattivi, nessuno abbia mai un blocco - alfanumerico o biometrico - sullo smartphone?!?)
- Il mondo sta andando letteralmente tutto in pezzi.
- Preferiresti vivere nel Medioevo? Quando la gente si faceva la guerra? Peggio dell'ISIS o di qualunque altro terrorista. Cazzo, è un miracolo che sia rimasto qualcuno in Europa. Per tutto questo tempo non abbiamo fatto altro che massacrarci e perseguitarci. Voglio un'altra birra. Insomma, cazzo… Siamo fortunati! Viviamo… nel momento storico… migliore che ci sia. Sul pianeta migliore! Se non sei soddisfatta di vivere adesso, qui… non sarai mai soddisfatta.
IV.
Peppa Pig e le altre.
- You look so pink!
- Guess who I am?
- Hm…
- Watch, watch!
- Peppa Pig!
- I’m Monica Vitti!
- Monica Vitti’s dead, but... yes...
Una minaccia nell’aria, ovvero: “l’Avventura” al “White Lotus” (per un discorso - non certo completo, ma più articolato - sulla scena con Aubrey Plaza espressione del rifacimento letterale in copia conforme di quella con Monica Vitti nel film di Michelangelo Antonioni si legga qui).
Noto (SR), Piazzetta 3 Ottobre 1920, all’angolo tra Corso Vittorio Emanuele e la scalinata della tardo-barocca Chiesa di San Francesco d’Assisi all’Immacolata.
Se in Antonioni/Bartolini/Guerra quel particolare momento, senza musica aggiunta e col solo “fare voci” dei masculi siculi appollaiati, inserito in un contesto molto più ampio ed eterogeneo dal PdV delle tematiche nel complesso affrontate, ma comunque sempre similarmente finitimo a quel particolare acme, inventa ed organizza con grazia una situazione che, per l’appunto, senza neanche troppo esagerare, si potrebbe definire come iperrealistica se rapportata alla struttura prevalente dell’umana società di allora (con la Claudia di Monica Vitti ch’è semplicemente, e non altro, vagamente divertita e nel complesso indifferente al manipolo di umarèll che la surrounderizzano di occhiate e commenti a viva voce attratti senza ritegno dall’itinerante installazione bionda), oggi il demiurgo Mike White lo ricrea, col commento della “Ommil Habiba” di Omar Khorshid, mettendolo in scena situazionandolo in un periodo storico in cui la (chiamerò) modernità è fertilizzata, volente o nolente, dal trasversale, anche se non compiutamente interclassista, movimento dal basso-medio-alto del #MeToo, conferendogli, proprio perché innestato in un ambiente perfettamente normale in relazione alla contemporaneità nella quale si muovono i personaggi coinvolti (“Hey! Marry me!”), un’antifrastica e onireggiante aura di timoreggiante (ma non timorato) desiderio erotico, un sogno lucido inverso, un incubo perturbante, risoltosi con un lapidario risveglio esorcizzante (“Sono sempre tutti arrapati a Noto!”) da parte dell'Harper di Aubrey Plaza, innescato da un prelievo al BancoMat della quasi-amica, nel quale rimangono a fissare la passeggiante protagonista di sequenza, con interazione diretta e reale un po’ troppo insistente, allo scemar della tensione artatamente costrutta – mentr'entrambe le donne ritornano sui loro passi riprendendo a ritroso la via dell’andata, questa volta oltrepassando la scalinata ecclesiastica dalla quale erano discese, compagne di viaggio fortuite, tirando dritto dirigendosi verso un'altra, quella della Cattedrale di San Nicolò di Myra –, “solo” un tizio a caso, fra i più inquietanti della madria e legione di (in questo caso meno vocianti, ma ugualmente ammiranti) locali masculi nuticiani, del tipo Paviglianiti style, ed un paio di “innocui” bimbominkia-hipster.
Riassumendo: se in Antonioni nel 1960 gli svergognati sguardi etimologicamente stupranti sono reali e “contenuti”, in White più di 60 anni dopo quegli “stessi” sguardi sono per lo più immaginati, tranne un paio, ma più violenti.
Bellissime scoperte: Meghann Fahy ed Eleonora Romandini.
Bellissime conferme: Beatrice Grannò, Haley Lu Richardson, Simona Tabasco e Sabrina Impacciatore (il suo è forse uno dei personaggi con una delle caratterizzazioni più spinte, forti ed estreme, assieme a quello di Jennifer Coolidge, ma entrambe se la cavano egregiamente).
Non si vede, ma in questa immagine in controcampo (transoceanicontinentale) c’è Laura Dern (e fa paura).
Caritas Romana (caraveggesca e non).
Due Pero e due Cimone trinacri.
Da San Domenico Palace in Taormina a Villa Tasca in Palermo, e viceversa. Da una concezione mitologico/sacra ad una libidinoso-godereccia, e viceversa. Da "l'Avventura" a "the White Lotus", e vicever... Va beh.
E c'è tempo pure per l'immancabile caccia al cinghiale, oramai un must per ogni produzione U.S.A. in Italia che si rispetti: si pensi ad esempio a "Spin Me Round", ove lì però il mondo artiodattilo in collisione con quello umano è rappresentato da un’irruzione invasiva di setoloso-zannuti suidi gerofanti durante un’orgia alla Eyes Wide Shut: un’accuratissima istantanea realistica dell’Italia da cartolina scattata praticamente a guisa di un documentario di cinéma vérité ("To Lucca with Love").
Ed ora, infine, un piccolo spazio per F. Murray Abraham (out of Renzo Martinelli), ché lo merita eccome (“Il nostro tallone d’Achille è un cazzo d’Achille!”).
- Io amavo tua madre. E lei amava me.
- Non è così semplice.
- Sì lo è.
V.
“It’s a penis, not a sunset!”
La stessa “violenza” di cui parlavo ai punti II (violenza di classe) e IV (violenza di genere) è manifestata in quell’altrettanto paradigmatica situazione preconizzante quando Theo James (Cameron) estrae… come dirlo con altre parole che non siano queste… la minchia tanta al fin di corteggiare/impressionare Harper (Aubrey Plaza) con fine mossa da Casanova (l’asimmetria fra chi compie l’azione, attore, e chi la subisce, personaggio, è voluta) e si sente il suono delle campane senz’alcun bisogno della presenza delle campane perché è sufficiente il batacchio fendente l’aria (mentre, a commento del momento, cosa può esserci di meglio che, metre Luigi Tenco si spara, "Preghiera in Gennaio" di De André? “Lascia che sia fiorito, Signore, il suo sentiero!”).
Le due (tre) differenti situazione sono assimilabili psico-sociologicamente e vicendevolmente iconiche: il rapporto tra i segni/simboli e i loro sensi/significa(n)ti è da sé evidente. I cascami, le rigaglie e i lacerti degli eyeswideshutiani “Milioni di anni di evoluzione, vero? Vero?” condensati in un brandello di zeitgeist.
VI.
PlayList.
Cristobal Tapia de Veer è tornato, con egregia variazione sul tema…
Realizzata con la collaborazione del floreale illustratore Lezio Lopez dalla coppia composta da Katrina Crawford & Mark Bashore dello studio Plains of Yonder che ha creato anche quelli della precedente prima annata, "Hawaii", la sigla di testa, tanto un'epitome di un minuto e mezzo condensante 7 episodi da quasi un'ora ciascuno che racconta, anticipandola e suggerendone lo svolgersi per accenni allegorici e metafore allusive, la storia che di volta in volta andrà via via a dipanarsi, quanto un'avventura (o "l'Avventura", per l'appunto... Anche se questa è un'altra storia... O forse no...) in cui le classi sociali s'incontrano e si scontrano in un territorio non neutro, ma liminalmente complesso, eterogeneo e compenetrante, è strutturata concatenando dei trompe l'oeil con risonanze greche, latine, etrusche e rinascimentali (e pure arabe e normanne, toh) ricreati dal nuovo (basandosi ad esempio in larga gran parte sugli affreschi preesistenti presenti a Villa Tasca in Palermo) facendoli esplorare allo spettatore grazie a brevilenti/lungoveloci e viceversa zoom ad avanzaretrocedere, panoramiche a schiaffo e gentili, jump cut, rotazioni della macchina da presa, giochi di messa a fuoco e profondità di campo e contenutemente ibridanti animazioni insufflanti vita, il tutto accompagnato da "Renaissance (Main Title Theme)", la partitura per voce umana e strumentelli vari di Cristobal Tapia de Veer (“Utopia”, “the Third Day”) che il suo autore ha per l'occasione remixato in una nuova versione riarrangiata e in parte riscritta basandosi sulla composizione della volta scorsa giungendo dall'Oceano Pacifico al Mar Mediterraneo passando non si sa se per il Canale di Panama o quello di Suez a bordo di questa pista da ballo discotecara ch'è una sempiterna festa mobile sudata e strafatta.
Le voci armoniose che inizialmente connotano l'edenitico ed edonista paradiso siculo pian piano si trasformano in qualcos'altro, oltrepassando la soglia che dal romanticismo sognante porta al timor panico lussurioso e sfrenato, diventando più folli, stralunate, allucinate e compulsive, finendo col risultare lucullianamente inebrianti... (E al termine di questo rondò venatorio in cui eros e thánatos triellano col dio dollaro a far vibrare l'aria m'immagino che solinghi s'odranno innalzarsi unicamente i garriti dei gabbiani e i latrati dei cirnechi.)
Sul resto... La cosa dev’essersi svolt’all’incirca in questo modo. Per l'occasione qualcuno (tipo Google o Bing, perché già DuckDuckGo probabilmente avrebbe cavato fuori risultati più articolati e ponderati) ha regalato a Gabe Hilfer, il music supervisor di “the White Lotus: Sicily”, il “Vol. 1°” di De André del 1967, album d’esordio composto per la maggior parte da singoli usciti in precedenza, e lui solo con quello, quatto quatto, cacchio cacchio, ci ha riempito mezza playlist: così, de botto, senza senso, alla cazzo di cane. Per la serie: voglia di approfondire portami via. Un po’ come se dopo “the Freewheelin' Bob Dylan”, “Songs of Leonard Cohen” e “Everybody Knows This Is Nowhere” Dylan, Cohen e Young non avessero più inciso un'emerita cippa. E allora per “the White Lotus: Miami” mettili sul piatto “Masters of War”, “Suzanne” e “Cowgirl in the Sand”, no?! Perché, bisogna ammetterlo, quale canzone meglio di “Preghiera in Gennaio” per chiosare la minchia tanta di Theo James? Da ammirare pure l'utilizzo di “Lo Chiamavano Gesù” in antifrasi a una sfilza di bestemmioni in siracusano e di “la Stagione del Tuo Amore” dopo una bella inculata.
Ad esempio “Bocca di Rosa” [perché “the White Lotus: Sicily” è in parte una storia di “grandi puttane” (e così siamo a mezza via, nella Napoli di Carlo Martello: ma non allarghiamoci troppo), quindi, accantonando i 900 chilometri di distanza in linea d’aria (tra Genova e Taormina), ci sta, anche se qui è utilizzata come canzone d’ambientazione paesaggistica]: tagliata e riassemblata con un jump cut da galera: "…e fu così che [il concupito]… - …[con la] Vergine in prima fila…": sulle prime ho pensato che si trattasse di un micro-ictus, invece alla fine erano solo quegli zozzoni degli ammeregani.
E alcuni bei "ripescaggi", fra i quali "Ogni Uno" di Eugenio Bennato.
E a chiosare il tutto, come morale personale ed etica condivisa (di specie), Daphne (Meghann Fahy) ed Ethan (Will Sharpe) s’incamminano verso l’istmo dell’Isola Bella per andare a fornicare e ristabilire così l’equilibrio delle corna sulle capocce delle due coppie (sapere, non sapere, ma, soprattutto, scopare: la "lezione terminale" del proverbiale "Fuck!" di "Eyes Wide Shut").
Stagioni:
- "the White Lotus: Hawaii" (6 ep., 2021) - * * * ¾ (****)
- "the White Lotus: Sicily" (7 ep., 2022) - * * * ¾ (****)
Indice:
- 1. la Sigla di Apertura (¡Cristobal!)
- 2. Comparazione (Vitti/Plaza)
- 3. PlayList (Grand Tour Mandolino)
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