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The White Lotus

3 stagioni - 14 episodi vedi scheda serie

Recensione

Stagione 1

  • 2021-2021
  • 6 episodi

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mck

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La recensione su The White Lotus

di mck
8 stelle

¡Cristobal!

 

 

Classi dominanti (sanguisughe prevaricatrici), classi lavoratrici (laboriose) e classi pericolose; ah, già: e resti umani.

 


“Da bambini cresciamo convinti di essere l’eroe della storia e, alla fine, siamo solo felici di non essere il cattivo.”

 


Con allarmante precisione chirurgica, sottilmente e profondamente analitica, Mike White (“Year of the Dog”, “Enlightened”, “Brad’s Status”) scrive e dirige interamente da sé, al tempo della ri-disposizione/distribuzione della povertà e delle ingiustizie su larga scala, accettata come consuetudine e dato di fatto inalterabile, facendosi portare via da sotto il naso le conquiste dei diritti sociali strappate allo status quo dalle generazioni passate, da una parte, e dei piagnistei dei poveri maschi bianchi eterosessuali benestanti che ai tempi del #MeToo sentono affossato il loro amor proprio, paragonabile a quello di una tenia intestinale abitante le viscere di un capezzone, dall’altra, questa prima stagione ambientata alle Hawaii (la prossima si svolgerà in Sicilia, con un cast rinnovato - a parte il ritorno di Jennifer Coolidge - che comprenderà, fra gli altri, Aubrey Plaza e Michael Imperioli) della sua creatura, la serie semi-antologica “the White Lotus”, epitome moderna (com’è in parte l’altrettant’ottimo, ma diverso, “the Resort” di Andy Siara) del pensiero di Louis Chevalier (1911-2001), espresso e condensato poco meno di 65 anni fa, nel 1958, in “Classes Laborieuses et Classes Dangereuses à Paris pendant la première moitié du XIX Siècle”, un saggio sociologico, economico, letterario, politico e storiografico in cui, come ci ricorda Enzo Ciconte per Laterza nel suo fresco di stampa “Classi Pericolose - una Storia Sociale della Povertà dall’Età Moderna a Oggi”, ad un certo punto della trattazione, con quella che non è una digressione ma un elemento fondativo del testo, si pone in luce il fatto che anche Victor Hugo (“les Misérables”, 1862, che, in “le Dernier Jour d'un Condamné”, 1829, vengono così poeticamente e lucidamente, con tutte le riserve e gli appunti del caso, e non solo quelli sollevabili a due secoli di distanza, definiti: “poveri diavoli che la fame spinge al furto e il furto a tutto il resto”), assieme alla letteratura del tempo, operando a partire da Honoré de Balzac (“la Comédie Humaine”, 1829-1850) e giungendo ad Émile Zola (il Ciclo dei Rougon-Macquart, 1871-1893), «amplificava il tema del delitto - una “psicosi” fomentata anche dalla “Gazette des Tribunaux” - creando, a partire dagli anni Venti dell’Ottocento, una moda letteraria che raccontava l’angoscia della società e che veicolò tra i parigini l’idea che “la capitale fosse più malsicura di quanto pensassero”»: e se questo non vi ricorda qualcosa dell’oggi (si pensi alle “Illusions Perdues” dell’autore delle “Scènes de la Vie de…”) vuol dire che vivete nel mondo delle fate (delle crociere, dei resort), o che siete morti, vale a dire pronti per votare Melowni e Salveeni. E ai poveri non risparmia le critiche: il personaggio con cui è più facile empatizzare, con tutti i suoi pregi e qualità, alla fine vuole mettere in piedi uno centro estetico basato su ‘sta stronzata dei massaggi olistici.

 


- Mamma, sembri una squilibrata!
- Tranquilla tesoro, ho un filtro per questo.

- E la sua famiglia?
- Hm? Oh, cazzo! Devo tornare da loro! Hm, beh, in fondo mi hanno già visto abbastanza…

- Being a man now can’t be easy.
- Why, because we can’t harass girls anymore?
- No, well, yeah. The modern world is just so emasculating.
- You mean like we’re cuck’d.
- Yeah, you know, every kid wants to be the hero of their story, and in the end, you’re just happy you’re not the villain.
- Is this about mom making more money than you?
- Nooo, it’s not about that!

 


Gran cast: dal manager del resort, un immenso Murray Bartlett (“Phisycal”), passando per gli ospiti – la famiglia composta da Steve Zahn e Connie Britton coi figli Sydney Sweeney (the Ward, the HandMaid’s Tale, Sharp Objects, Euphoria, Nocturne, the Voyeurs) e Fred Hechinger (Vox Lux, the Woman at the Window, Fear Street 1994, 1978 e 1666) e amica della ragazza al seguito, Brittany O’Grady (letture delle due ragazze bimbominkia-nichiliste: Freud e Nietzsche, e poi: “Discorso sul Colonialismo” di Aimé Césaire, “i Dannati della Terra” di Frantz Fanon e “Sexual Personae: Arte e Decadenza da Nefertiti a Emily Dickinson” di Camille Paglia); la coppia di sposini Jake Lacy (letture: la spazzatura profumata ch’è “Blink: the Power of Thinking Without Thinking” di Malcolm Gladwell) e Alexandra Daddario (“True Detective 1”, “the GirlFriend Experience 3” e il prossimo “Mayfair Witches”; letture: “l’Amica Geniale” di Elena Ferrante), con madre di lui, Molly Shannon, imbucatasi; la coppia incontratasi lì: Jennifer Coolidge e John Gries –, al personale di servizio: Natasha Rothwell, Jolene Purdy, Lukas Gage e Kekoa Scott Kekumano: le classi lavoratrici/pericolose.

 

 

Fotografia (sorpresa: se applichi un filtro giallo, all’obbiettivo della MdP o in post-produzione, quel filtro giallo renderà le verdi Hawaii gialle) di Ben Kutchins (Happyish, Ozark). Montaggio di Heather Persons e John M. Valerio

 


Un discorso a parte merita l’arazzo musicale - una ragnatela non solo perfettamente integrata nell’opera, ma che la costituisce sin dalla base - organizzato da Cristobal Tapia de Veer (“Utopia”, “the Third Day”) che, soffiando nelle anforiche conchiglione (tófe cilentino-polinesiane), tamburellando legnetti cavi, shakerando graniglia sonagliante e vocalizzando echeggianti mugolii crea un commento sonoro - perfettamente fruibile di per sé - intrigante e congeniale.

 

 

PS. Mi si scuserà per il fotodaddariocentrismo, imperdonabile.
Per farmi perdonare: Sidney Sweeney e Brittany O’Grady (con Daddario che s’è ‘mbucata pure qui, che ce posso fa’).

 


* * * ¾ (****)   

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