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Solos

1 stagioni - 7 episodi vedi scheda serie

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La recensione su Solos

di mck
7 stelle

Corale fantascienza speculativa e psico-sociologica innestata con rare gemme più hard che però, non sbocciando né fruttificando, si adagia troppo sull’annacquante mainstream semplificatorio, abusando di questo compromesso.

 

 

«Solos» (che con, ad esempio, «la Stanza» di Lodovichi e «il Giorno e la Notte» di Vicari, rientra nella sotto-categoria dei progetti cinematografici per strutturazione extradiegeticamente pandemici, essendo stato girato nell’autunno del 2020) conferma la prima impressione che ebbi dell’arte di David Weil ai tempi del pilot - e lì mi fermai, e più oltre non andai - di «Hunters»: quello che superficialmente poteva essere scambiato per un epigono di Alan Ball (cinema: American Beauty per Sam Mendes, e poi TowelHead ed Uncle Frank per sé stesso; e serialità: Six Feet Under, True Blood, Here and Now) in realtà è solo un’evoluzione un poco - ma giusto, solo(s) un poco poquito pequeño - migliorativa dell’insopportabile Ryan Murphy (in «attesa», si fa per dire, di «Invasion») di, per il grande schermo, «Running with Scissors», ma pure «Eat Pray Love», e di, per il piccolo schermo, «Nip/Tuck», ma pure tutta la stracatafotteria di American Horror/Crime Story e derivati: Feud, Pose, 9-1-1, Hollywood, Ratched… L’unica differenza è che «Solos» – grazie a quella parafrasi fisica del Principio di Archimede la cui formulazione così recita: «Ogni abbiocco calato dall’alto veso il basso come una soporifera mannaia riceve e subisce, grazie agli attori coinvolti, una forza risvegliatrice dal basso verso l’alto d’intensità equiparabilmente pari alla quantità di smarronamento cala-palpebrale generata in partenza» –, l’ho portata a termine: 7 ep. (5 assoli, un duetto ed un, beh, «terzetto») da circa 25’-30’ l’uno (tutti fotografati da William Rexer), sceneggiati (4 dallo stesso creatore e showrunner, e altri tre rispettivamente da Tori Sampson, Bekka Bowling e Stacy Osei-Kuffour) grazie ad un inchiostro ricavato dallo svenamento della Dea Retorica, diretti – 3 dal summenzionato David Weil, 2 da Sam «Artista Concettuale» Taylor-Johnson, già Wood, e 1 a testa da Zack Braff e Tiffany Johnson (nessun legame di parentela con l’Artista Concettuale suddetta) – con garbata piattezza...

 

[quello inscenato da Braff, il 1°, con una Anne Hathaway ("Rachel Getting Married") un po' troppo sopra le righe, è un filino isterico, ma pure divertente (o, meglio, buffo) e commovente, così come emotivamente scombussolante è il 7°, ultimo e tirante le fila, diretto da Taylor-Johnson e interpretato splendidamente da Morgan Freeman ("Million Dollar Baby") e Dan Stevens ("Legion"): entrambi sono, a loro modo, il filo rosso dell’intera storia: l’uno, raggomitolato in riva all’oceano mare, e in attesa d’essere sbrogliato, è una sorta di «Uomo Illustrato» mentale, coi tatuaggi neuron-sinaptici dipinti con inchiostro simpatico a causa della malattia degenerativa del cervello di cui soffre, e l’altro, sgomitolato, diramantesi sottotraccia e affiorante ogni tanto lungo tutto il corso della narrazione]

 

...e interpretati (oltre che dai già citati Anne Hathaway, Morgan Freeman e Dan Stevens), da Anthony Mackie (episodio commovente-bis, ma senza guizzi e con un pesante carico di noia), Helen Mirren [Age of Consent, Savage Messiah, O Lucky Man!, Caligula, Excalibur, 2010, the Mosquito Coast, "the Cook, the Thief, His Wife & Her Lover", the Comfort of Strangers, the Pledge, Gosford Park, the Queen, RED, the Leisure Seeker, la Vacinada; episodio commovente-tris, e soprattutto con una prestazione attoriale da urlo, anche se in parte smorzata da una regìa - dell’artista Taylor-Johnson concettuale (NowHere Boy, Fifty Shades of Grey, a Million Little Pieces) di cui sopra - che porta i movimenti di macchina panoramico-stretti a 180° e il campo-controcampo verso nuove, inusitate vette di usura filmica], Uzo AdubaOrange Is the New Black»; sui suoi soliti binari, ma brava), Constance Wu (a cui viene chiesto di rimettere in scena una variazione - scritta da Bekka Bowling - del «White Christmas» di «Balck Mirror», a sua volta derivato da «Matrix» e da tutta la branca cyber-punk, e diretto verso «WestWorld») e Nicole Beharie («Shame», «Sleepy Hollow», «MonsterLand»; nell’episodio - in para-zona «Vivarium» - forse più disturbante perché allusivo, ma chiuso in speranza).

 


Per dire: «Solos» viene battuta ai punti da «Tales from the Loop», la cui maggior parte degli episodi le è chiaramente superiore, e quelli inferiori invece lo sono di poco, e, specialmente, l’intera «DEVS» di Alex Garland, che, distintamente composta da tutta un’altra pasta e appartenente ad un’altra categoria, la sconfigge nettamente sul medesimo campo da gioco in comune. In somma: i conti tornano, ma sarebbe stata necessaria un po’ meno… inflazione (di) retorica.

Molte parti da ***, con assoli attoriali da ****, per una corale (le singole vite compartimentate che compongono un vasto mosaico interconnesso) fantascienza speculativa e psico-sociologica (un nome per, e forse su, tutti: Philip Kindred Dick) innestata con rare gemme più hard che però, non sbocciando né fruttificando, si adagia troppo sull’annacquante mainstream semplificatorio, abusando di questo compromesso: vale a dire, in totale, un più che generoso ***½(¾) - 7(½).          

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