2 stagioni - 18 episodi vedi scheda serie
Non bisogna essere laureati in lettere antiche o aver fatto studi greci e latini e nemmeno conoscere dettagliatamente la storia di Roma oppure il cinema dei sandaloni, dei gladiatori, i peplum, per godersi lo spettacolo cinematografico di Romulus. Prodotto sì televisivo – gli archi narrativi, i cliffhanger, lo studio dei moduli narrativi in linea con le tendende della serialità odierna, etc. – ma dal respiro cinematografico proprio come Il primo re (Matteo Rovere, 2019). Se si possono citare, a giusta ragione, Vikings (Michael Hirst, 2013-2020) per lo sdoganamento del genere mitologico, Gomorra – La serie (Saviano/Fasoli, 2014-in corso) per la struttura narrativa clanica e le faide criminali già pensate dal Placido di Romanzo Criminale (2005) o Il trono di spade (Benioff/Weiss, 2011-2019) per l’utilizzo di una lingua, in parte ampiamente inventata dicono gli esperti, che però conferisce carattere e anima a un mondo a noi ovviamente sconosciuto, rappresentandolo; se, come dicevo, si possono citare le tendenze seriali e i gusti estetici odierni, non va dimenticato che il mitologico Romulus si inserisce perfettamente sia in un contesto produttivo e mitopoietico preciso – quello della narrazione seriale per piattaforme, quindi non totalmente generalista – sia in una cinematografia, quella italiana, che ha vissuto l’epoca d’oro del proprio cinema di genere, partendo proprio dal mitologico. In sostanza, Rovere, attinge alla cultura italiana di genere per salire sul primo treno possibile per l’azzardo e il successo produttivo.
Romulus appare così un’opera totale – l’epica su tutti, ma attenzione ai modi romanzeschi con cui la serialità si nutre per ovvi motivi di sopravvivenza – e totalizzante – il sistema dei personaggi, i temi universali, il fascino per il primordiale – non priva di difetti, ma che gioca più della metà del proprio successo sulla presenza attoriale. Sono i corpi, i volti e le voci – soprattutto nella versione in protolatino – degli attori e delle attrici a determinare la storia e a integrare il paesaggio selvatico e agreste, desertico e paludoso, di un elemento fondamentale per la lettura della storia primitiva qui narrata, ovvero il corpo umano sospeso tra residui di animalità e abbozzi di civiltà. Su tutti trionfa, va detto, Francesco Di Napoli, che dopo l’ottimo e fisico esordio in La paranza dei bambini (Claudio Giovannesi, 2019) si ripete senza soluzione di continuità, forte ancora di un profilo mediatico abbastanza basso, in un altro ruolo ancora più fisico del precedente. Dalla Napoli del terzo millennio e dagli interni barocchi della criminalità partenopea alle lande selvagge dell’Italia ancora da venire, tra caverne e capanne di paglia, tra pelli di lupo e gonnellini. La fisicità del suo personaggio, leggermente ingobbito rispetto al capobanda della paranza, giovane imberbe tra uomini villosi, è la forma con cui si rappresenta il contenuto, il significante con cui il significato del suo Wiros attraversa la storia e arriva al pubblico: personaggio ambiguo, manipolatore, seduttivo, vile, serpentino, sibilante fin dal nome /wiros/. Un personaggio più da romanzo che da epica, quale invece è l’eroe incarnato da Andrea Arcangeli, anche lui ottimo attore della nuova generazione, ugualmente fisico, forse più impostato e meno naturale di Di Napoli, ma convincente allo stesso modo. Sembra quasi fuori luogo Arcangeli: tratti somatici gentili, fisico lucido e statuario, mentre intorno a lui si aggirano uomini che portano in viso l’età e la fatica di una vita passata tra lotte tribali nella sopravvivenza di un mondo pericoloso e animalesco, il cui fisico, modellato dalla fatica e ammaccato dalle battaglie segna il netto contrasto con lo Yemos di Arcangeli. Bravo l’attore abruzzese a competere con la figurazione base dei personaggi ricercati sul modello barbarico dell’immaginario comune. A ben vedere, questa netta distinzione tra uno Yemos quasi femminilizzato dai suoi tratti e gli altri attori virilizzati dalla loro brutalità e finanche dalla loro belluinità serve proprio per marcare la differenza con l’eroe gentile e virtuoso che fonda una civiltà e i suoi diretti rivali, le sue speculari antitesi.
Ovviamente, il successo di Romulus non si limita alla scelta azzeccata degli attori, da Di Napoli e Arcangeli ad Arrianna Fontana, Emilio De Marchi, Gabriel Montesi, Corrado Invernizzi, Massimiliano Rossi e moltissimi altri e moltissime altre facce straordinariamente scelte per puntellare lo sfondo storico con una umanità verace e viscerale data ed evocata dalla corporeità dei suoi attori. I registi infatti, Rovere, Alhaique e Artale, sicuramente fedeli alla sceneggiatura, hanno apportato uno sguardo non televisivo al prodotto, dotando il discorso di una grammatica sì epica, ovviamente, ma perfettamente in sintonia sia con il modo realistico della narrazione più terrigna e i modi più “neri”, tra horror e fantastico, con cui articolare altri segmenti narrativi di ispirazione più ctonia.
Se purtroppo Romulus, per quanto mi riguarda, non può ancora essere considerato un capolavoro è perché si dilunga troppo nei più archi narrativi invece che dedicarsi all’avventura di Yemos e Wiros, un’amicizia virile che ricorda quella dal taglio più omoerotico di The Eagle (Kevin MacDonald, 2011) sempre in contesto mitologico-primitivo, quasi a ipotizzare o confermare la nascita della civiltà da un patto di sangue virile avvenuto tramite il tabù, già trattato da Fiedler, del matrimonio tra maschi, dove non si sparge sperma, ma solo sangue. Una linea narrativa che andava seguita totalmente, marginalizzando il resto, diminuendo le puntate e focalizzandosi sulle peripezie, appunto romanzesche, dei due giovani fuggiaschi, arricchendo il tutto con inserti ancora più orrorifici di quelli già presenti, inasprendo l’iconografia della violenza e l’estetica del brutto, sconfinando nel pornografico quanto sarebbe bastato per rafforzare i significanti di una narrazione primitiva, animalesca, pre-civile, pre-gentile. Invece, nonostante le incomprensibili note critiche che parlano di alto tasso di erotismo e sesso elevato alla potenza (Maria Sole Colombo, FilmTv), la sessualità e fisicità più scomode e perturbanti vengono omesse. Piccoli nei che non permettono a Romulus di svettare sul prodotto seriale di prestigio.
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