2 stagioni - 8 episodi vedi scheda serie
"Giochiamo?"
Las Vegas, 1966. Splendido piano-sequenza su steady-cam in set reale - da open air, con piccoli inserti in CGI, a “studio” - con la tromba di Quincy Jones (che in quel momento aveva abbandonato la Mercury Records per musicare la HollyWood di “In Cold Blood” e “In the Heat of the Night”) nella sua versione della “Comin’ Home Baby” di Ben Tucker a tenerne il passo e scandirne l’incedere e l’andatura. Ecco che sta per farlo. Sale un paio di gradini. Adesso lo fa. Un altro scalino. Sta per girarsi. Rallenta un poco. Ecco che ora si volta. Un gradino ancora, rallenta sin quasi a fermarsi e… Taaac! Incrociando un abito d’alta moda (tipo uno chanel o un “ma che ne so, qualcosa del genere”) mentre sale l’ampio e proteso sul vuoto scalone principale del Mariposa, l’hotel-casinò che per l’occasione ospita gli U.S. Open di scacchi, il diciassettenne sguardo di Elisabeth “Beth” Harmon è rapito e preso all’amo (così come il suo cervello di fanciulla ospite dell'orfanotrofio fu già ben assuefatto para-"istituzionalmente" alle benzodiazepine) da quell'oggetto indossato e deambulante del desiderio, e i giroscopici muscoli oculari comunicano a quelli del collo ch’è ora di darsi una mossa - anche contro la decenza, il ritegno, il pudore, il riserbo, il decoro, il contegno, la costumatezza, le belle maniere e la giusta ed appropriata creanza - e di mettersi di buona lena a far ruotare di 90° la testa che li ospita ché altrimenti sarebbero schizzati fuori dalle orbite per raggiungere il loro obbiettivo. Questo è territorio “Mad Men”: per lo spessore dei caratteri, per come questi si muovono in relazione al loro ambiente, per la gestione dello zeitgeist. (Quando per incapacità, noia, inanità, mancanza d’argomenti o preconcetta benevolenza verso un film se ne scrive, ad un certo punto, “ottime le scenografie e i costumi”, c’è da storcere il naso. Ecco, il lavoro fatto sulle scenografie e in particolar modo sui costumi in “the Queen’s Gambit” è impressionante, prezioso e di alta levatura: queste due sezioni della macchina cinema raggiungono qui il livello di personaggio, e “recitano” - per mano di chi le utilizza - pure bene.) Questo è un semi-capolavoro coinvolgente ed appassionante di traslazione/adattamento/interpretazione/traduzione/reinvenzione/arrangiamento (da Walter Tevis) e ritrattistica. Grazie, Scott Frank (che già con “GodLess” - dagli anni ‘80 del XIX secolo è passato ai ‘60 del XX: lo attendiamo per i ‘40 del XXI i zona SF, che del resto ha lavorato allo script di “Minority Report” - aveva dato prova del suo valore).
A proposito d’interpreti, una notazione a parte la merita l’intera indimenticabile prestazione del cast, composto da una magnetica (nell’accezione di attraente) Anya Taylor-Joy, la spina dorsale dell’opera (nei suoi occhi - con due tratti aggiunti nei sixties di matita nera à la Twiggy -, sul suo volto, attraverso il suo corpo vive la serie), Isla Johnston, la sua controparte pre-adolescente, altrettanto - contestualizzando il tutto - brava e ben diretta [se la protagonista è una promessa - “the VVitch: a New-England FolkTale”, “Split”, “Glass” e i prossimi (certi) “Last Night in Soho” e (probabili) “the NorthMan” - confermata, lei è una promessa punto], Marielle Heller, eccezionale (non la conoscevo come attrice, ma solo - in parte - come regista: “The Diary of a Teenage Girl”, “Can You Ever Forgive Me?”, “A Beautiful Day in the NeighborHood”) e commovente (nel vero senso etimologico del termine: sommuovere lacrime) nel restituire la complessa strutturazione di una personalità ingenua, distante, egoista, distratta (sarà lei, in parte, ad avviare "inconsapevolmente" la figlia adottiva all'alcool), petulante, affettuosa, svampita, generosa, Bill Camp (“The Night Of”, “The Looming Tower”, “The Outsider”), che come al solito, con poche pennellate, tratteggia un ritratto completo e indelebile (e poi - ellissi degli anni, nostos, e tutto il peso del tempo - una fotografia, in particolare, assieme alle altre...), Harry Melling, Thomas Brodie-Sangster e Jacob Fortune-Lloyd, i tre corteggiatori, amici ed amori, Moses Ingram, l’amica di sempre, del cuore, della vita, Chloe Pirrie, la madre biologica, Christiane Seidel, Rebecca Root e Akemnji Ndifornyen, rispettivamente la direttrice, una professoressa e un inserviente con mansioni speciali dell’istituto, e Marcin Dorocinski, il Campione del Mondo.
Fotografia: Steven Meizler. Montaggio: Michelle Tesoro. Musiche: Carlos Rafael Rivera.
Production Design: Uli Hanisch. Art Direction: Daniel Chour e Thorsten Klein. Set Decoration: Ingeborg Heinemann. Costume Design: Gabriele Binder. Make-up & Hair Designer: Daniel Parker.
Come consulente alla colonna sonora non originale, lo scorsesiano Randall Poster (“BoardWalk Empire”), una garanzia di qualità nella ricerca e nella contestualizzazione. Co-produzione e distribuzione: Netflix.
Non entro nei dettagli della trama, ché una minima sinossi, sparsa per tutta la pagina web, la si può rintracciare leggendo la playlist che ho dedicata al libro del 1983 di Walter Tevis da cui Scott Frank ha tratto la serie (7 ep. da circa 1 ora l'uno), personalmente sceneggiandola (con Allan Scott, spesso collaboratore di Nicholas Roeg, ad esempio per “Don’t Look Now” e “the Witches”), e dirigendola interamente. Le maggiori differenze “tecniche”, ovvero di pura trama ed incastri e di cause-effetti e di avanzamento del racconto rispetto al romanzo (mentre invece per quanto riguarda quelle psico-comportamentali la più importante se non rilevantemente singola discrepanza la si riscontra nei vari episodi - collegati da un'unica matrice, quella genitoriale - che, accumulandosi, hanno portato la protagonista ad assumere lo stato di orfana: qui le figure biologiche parentali strette - quella materna soprattutto, e con minor forza quella paterna - assumono una valenza più rilevante, profonda e stratificata) sono, da una parte, le modalità che conducono al re-incontro fra Beth e Jolene e, di conseguenza, fra Beth e la signora Deardoff, e qui Scott Frank migliora la geometria comportamentale della triangolazione del destino “caso + volontà + necessità” imbastita con esperta ed ammirevole perizia da Walter Tevis (che ha scritto una classico ed avvincente storia di formazione la quale, pur lasciando trasparire dalla tessitura un impiantito di espedienti, dispositivi, modelli ed artifici retorici ben collaudati, semplicemente, travolge il lettore: e questo fa la mini/limited-serie di Scott Frank, con l’aggiunta, grazie al cambio di medium, di qualche bella invenzione soprattutto in fase di montaggio e di gestione - oltre che, come già detto, dei long-take, dei jump-cut, delle ellissi e dei cliffhanger tra un episodio e l’altro, che non interrompono il “flusso” ma ne alimentano la portata), dall’altra, la messa in scena del finale: tanto identico nella sostanza quanto sottilmente differente (da una parte, liricamente, vi è un indizio, un suggerimento, un richiamo - lo si potrebbe definire un metaforico flash-forward di pre-sentimento di significante in territorio desaussuresco - posto prima della grande sfida con Borgov - giusto pochi secondi, con una scacchiera componibile che viene aperta e disposta per esser pronta all’uso imminente - che forse anticipa troppo la commovente sorpresa di stile e contenuto e di forma e sostanza dell’ultima scena in campo-controcampo e poi a nero, e dall’altra, prosaicamente, gli anziani giocatori di scacchi del parco pubblico di Mosca la riconoscono, al contrario di quanto accade nel romanzo), e qui “vince” ai punti (per citare il secondo sport più violento che esiste al mondo) il romanziere sul cineasta. Patta. "Giochiamo?"
* * * * (¼) ½
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